Pubblicato da Stefano Fait il 26 febbraio 2014
Barricate borghesi a Caracas
a cura di Stefano Fait per IxR
Le proteste della classe
media nei quartieri della classe media, sui temi della classe media, non
creano problemi al sistema di potere chavista.
Francisco Toro, blogger antigovernativo, caracaschronicles
I social media sono stati impiegati per
diffondere nel mondo l’immagine di una popolazione venezuelana oppressa
da un governo poliziesco, grazie all’uso di fotografie
che in realtà ritraggono la repressione delle proteste cilene,
argentine, bulgare, greche, egiziane e perfino delle forze di sicurezza
di Singapore, nonché di una processione religiosa spacciata per
manifestazione oceanica e di agenti di una polizia metropolitana di
Caracas che era stata sciolta nel 2011.
La verità è che in Venezuela non c’è
alcuna protesta delle classi disagiate, che pure avrebbero anche valide
ragioni per lamentarsi, come ne hanno gli studenti.
Ci sono, al contrario, aspiranti rivoluzionari borghesi, troppo avidi ed egoisti per poter nutrire un reale senso civico e avvertire una qualche forma di solida responsabilità sociale.
Ci sono, al contrario, aspiranti rivoluzionari borghesi, troppo avidi ed egoisti per poter nutrire un reale senso civico e avvertire una qualche forma di solida responsabilità sociale.
Sono, a ben guardare, dei
controrivoluzionari impegnati a contrastare l’erosione dei propri
privilegi e che, come i protagonisti dei romanzi di J. G. Ballard,
non disegnano il lancio di “bottiglie di Borgogna incendiarie con delle
cravatte per innesco”, magari in parte alla ricerca di una vita più
intensa e ricreativa.
Questi agitatori, organizzati da un generale in pensione fissato con la minaccia cubana, stanno guastando le chance della destra di riconquistare legittimamente il potere dopo il quindicennio chavista (18 elezioni perse su 19: si può immaginare la frustrazione) e rischiano di condurre l’intero paese verso sbocchi ucraini.
Questi eventi ci riportano alla primavera
del 2002, l’anno del fallito colpo di stato anti-Chavez, quando
l’attuale leader della protesta anti-governativa, María Corina Machado,
rampolla di una delle famiglie più ricche del paese, guidava la Súmate,
un’organizzazione non governativa venezuelana sponsorizzata dal National
Endowment for Democracy di Washington, coinvolta nel tentato golpe.
Odiernamente lei e Leopoldo López
Mendoza, figlio di petrolieri, educato negli Stati Uniti, golpista nel
2002 e leader del partito centrista venezuelano “Voluntad Popular”,
attualmente incarcerato per eversione, si dimostrano insofferenti nei
confronti della volontà compromissoria e disponibilità al dialogo del
capo dell’opposizione anti-bolivariana (la Mesa de la Unidad
Democratica, o MUD), Henrique Capriles Radonski, più sensibile
alla richiesta della base di collaborare con il governo almeno nella
lotta alla violenza nelle strade e orientato a perseguire la strada
della presa del potere attraverso le elezioni presidenziali e il
referendum di revoca del mandato presidenziale (recall).
Come in Ucraina, le fazioni radicali
della contestazione sembrano invece più interessate a convincere
l’opinione pubblica internazionale che gli elettori venezuelani e non si
curano della difficoltà di governare un paese drammaticamente diviso in
due parti che non si parlano, non si ascoltano e non si vogliono
capire.
Capriles non pare in grado di imbrigliare queste forze
distruttive, sia per il suo essere uscito sconfitto contro il presidente
in carica, Maduro, sia per l’ampia vittoria governativa alle
amministrative sia, paradossalmente, in virtù della sua responsabile
presa di posizione contro la violenza e per il confronto politico duro,
ma civile, in vista delle elezioni del 2015.
E tutto questo in un momento di profonda
crisi del paese – forse almeno in parte causato da accaparramento – che
costringe il successore di Chavez, Nicolás Maduro, a cercare di
ammorbidire i toni e le azioni al punto da essere accusato di tradimento
dalle ali più estreme del movimento bolivariano.
Una crisi che, come
spesso accade, offrirebbe delle opportunità di intesa tra i contendenti,
nell’interesse della popolazione e della nazione, dopo 15 anni di
contrasti apparentemente insanabili e a tratti violenti e
destabilizzanti non solo per il Venezuela. Pensiamo a quanti giovani
venezuelani, in questi anni, sono stati educati all’odio invece che al
confronto anche aspro.
Tanto grave è la situazione che la moglie di López ha rivelato in un’intervista alla CNN che, su
richiesta del marito, il governo venezuelano si è attivato per evitare
che dei sicari lo uccidessero per trasformarlo in un martire della causa
anti-bolivariana
Il mondo ha bisogno di maggiore coordinamento a livello mondiale e regionale, un multipolarismo consensuale,
negoziato, che renda più semplice la soluzione delle dispute e dei
problemi locali e globali.
Non è più tollerabile che un unico polo
stabilisca per tutti quali siano i problemi e come vadano risolti, in
generale a tutto vantaggio di un’élite e non del genere umano nella sua
interezza.
Il Venezuela è il classico caso
in cui un governo sotto pressione è costretto a compiere azioni
contrarie ai suoi stessi interessi, che corrompono lo spirito della
rivoluzione bolivariana, mentre un leader
dell’opposizione che vorrebbe conquistare un solido consenso popolare
per andare al governo è in pratica ostaggio delle stesse forze che
mirano alla destabilizzazione della nazione.
Delle Nazioni Unite riformate
potrebbero spalleggiare gli sforzi conciliativi e democratici di
governo e opposizione, facendo prevalere il dialogo sulla violenza e
l’ideologia. Ma non è quel che sta succedendo.
Così il Venezuela, un
paese dalle immense risorse, affonda nelle sabbie mobili della paura e
dell’avidità, quando invece avrebbe tutto quel che occorre per dare man
forte alla costruzione di un ordine mondiale alternativo a quello del
presente: più equo, più dignitoso, più umano, più solidale, più libero.
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