Palmira: implicazioni geo-politiche
(Angelo Gambella) – Il 24 marzo le Forze Tigre
dell’esercito siriano, dopo aver liberato la maggior parte dei rilievi
sovrastanti Palmira e l’area collinare delle cave, dalle quali i
palmireni ricavavano la pietra per costruire la loro città, irrompono
nella piana dell’area archeologica.
Il giorno successivo è preso
d’assalto il castello medievale arabo sull’ultima collina rimasta
all’ISIS, e finalmente, dopo altri due giorni e scontri tra le strade,
la città moderna (Tadmur) viene completamente liberata. L’annuncio
ufficiale dell’esercito trova preparati i media occidentali che battono
la notizia della liberazione di Palmira: è il 27 marzo.
I russi avevano
già ampiamente coperto l’informazione della riconquista dell’antica
città, loro che con grande efficacia dall’aria e più o meno segretamente
da terra con gli Specnaz, avevano contributo in maniera determinante
alla liberazione della Perla del Deserto.
Irina Bokova, direttrice dell’Unesco, di nazionalità bulgara, è forse
la prima personalità ad intervenire pubblicamente: il 24 marzo, mentre
sto seguendo (per un’agenzia indipendente specializzata in beni
culturali) ora per ora la liberazione di Palmira, ormai sicura ma ancora
da venire, già campeggia con il suo tweet: “I welcome the liberation of #Palmyra. Let’s #unite4heritage and human values against violence and hatred”.
I primi filmati e le fotografie del sito storico sono incoraggianti:
Palmira è stata sì violentata, ma buona parte dell’area è intatta, il
teatro romano emerge nella sua monumentalità tra i colori del deserto.
Non solo: anche gli antichi monumenti rasi al suolo possono essere
restaurati, certo con fatica e in tempi non rapidissimi, ma gli
archeologi (e gli italiani primi su tutti) sono in grado di cimentarsi
nell’impresa.
Il 27 marzo, dopo che l’Unesco ha già salutato da giorni la
liberazione di Palmira, iniziano ad arrivare al governo siriano di
Bashar Al Assad, i complimenti entusiasti dei governi di Russia, Iran e
di altri paesi alleati. Che differenza con il filmato che ritrae il
portavoce del governo americano in imbarazzo di fronte ai cronisti che
gli chiedevano un commento su Palmira!
Quello stesso giorno Vladimir
Putin e Irina Bokova parlano al telefono e, attraverso il comunicato
ufficiale in inglese, emerge l’assicurazione del Presidente al Direttore
generale “of the wide-ranging experience of Russian experts from
The Heritage Museum in St. Petersburg, including from work under
UNESCO’s leadership on the preservation and reconstruction of the
cultural heritage of Syria.” Putin si fa forte dell’esperienza
dell’Heritage di San Pietroburgo che possiede, nella propria collezione,
reperti originali di Palmira, per offrire tutta la collaborazione per
la ricostruzione del patrimonio culturale siriano.
I rapporti dell’Italia, come il resto dell’Unione Europea, con la
Siria sono freddi: è dal 2012 che l’Italia ha chiuso l’ambasciata a
Damasco (“per il deterioramento della situazione di sicurezza nel paese”,
si legge sul sito). Ma la liberazione di Palmira è salutata con favore
sia dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, e, in maniera
politicamente più rilevante, da Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri: “#Palmira finalmente liberata, ricordiamo Khaled Assad, il suo custode ucciso dai terroristi. #Unite4Heritage”;
in questo tweet del 28 marzo, si ripete, come nel messaggio di quattro
giorni prima della direttrice Unesco, l’etichetta “#Unite4Heritage”
fatta propria dall’iniziativa dei caschi blu della cultura, promossa
dall’Italia all’indomani dell’occupazione di Palmira.
Ed è un’iniziativa
che l’Italia aveva concretizzato il 16 febbraio, quando,
sull’esperienza del Nucleo tutela dei beni culturali dell’arma dei
Carabinieri e con la collaborazione di archeologi e specialisti
italiani, viene ufficialmente fondata l’unità dei Caschi blu per la
cultura (primi 30 carabinieri e 30 specialisti). Già il 27 marzo
Franceschini dichiara alla stampa: “Se Palmira sarà la prima
occasione in cui verremo chiamati lo decideranno l’Unesco e la comunità
internazionale, che devono anche stabilire tempi, modalità e
coinvolgimento di uno o più paesi. Noi comunque siamo pronti.”
Le parole di Gentiloni sono di apertura: “L’Italia è pronta, aspettiamo una chiamata. Una chiamata di pace, di cultura e collaborazione”. Significativa differenza rispetto al silenzio delle altre cancellerie europee, con poche eccezioni.
Ma è la Russia di Putin, più di qualunque altro paese (Siria
compresa) a cavalcare l’onda mediatica della riconquista di Palmira e ad
impossessarsi del controllo della situazione. Subito Putin offre ad
Assad la disponibilità degli artificieri russi per bonificare l’area
archeologica ed ordina l’invio immediato degli stessi. Con una mossa
tipica della sua iniziativa politica, Putin invita anche i paesi della
coalizione a guida USA a partecipare allo sminamento, ma nessuno gli
risponde.
Tutta Palmira è disseminata di ordigni esplosivi improvvisati,
l’area degli scavi ne è oltremodo piena; si dirà poi che il dispositivo
di guerra elettronica russa ha reso inattivi gli ordigni comandati a
distanza. Dopo pochissimi giorni gli artificieri russi sono a Palmira ed
iniziano la bonifica dell’area. Il 2 aprile sono già 1000 gli ordigni
rimossi, resi inoffensivi o fatti brillare. Non passa giorno che il
ministero della difesa russo non emani un breve resoconto del numero di
ettari bonificati e della quantità di ordigni neutralizzati.
La bandiera
russa e quella dell’unità impegnata nelle operazioni campeggiano sulle
rovine; gli specialisti russi sono fotografati nell’atto di
neutralizzare gli ordigni, nello storico scenario palmireno con il
castello arabo o le colonne romane sullo sfondo.
L’8 ottobre dalla base di Hmeimim presso Latakia decollano elicotteri
da trasporto militare scortati da Mi-24, elicotteri d’assalto. I russi
hanno organizzato una visita guidata per la stampa a Palmira: ci sono
giornalisti da Italia, Germania, Belgio, Serbia, Cina ed altri per 11
diverse nazionalità. Ancora una volta non si vede alcun americano.
Il Direttore delle antichità siriane si offre alle telecamere, anche a
quelle della nostra TV di stato: Palmira è danneggiata, ma all’80%
integra e sarà riportata allo stato precedente. Intanto, il governo
siriano ha iniziato un collegamento bus per il rientro dei palmireni:
questo sabato i primi 2.000 sono rientrati nelle loro case. Prima della
guerra Palmira contava 45.000 residenti, dediti principalmente
all’estrazione del petrolio nelle vicinanze, e all’attività turistica
nella città-oasi del deserto.
Il futuro rilancio del turismo è vitale
per l’economia del posto.
La Siria non è sola: l’alleato Iran, forte di tradizione
archeologica, si offre alle autorità di Damasco per contribuire al
restauro. La Russia, intanto, manda inviti alla collaborazione
archeologica pure a Belgrado e ad altri vecchi amici, come se Palmira
fosse non già siriana, ma quella che in effetti è “Patrimonio
dell’Umanità”, anche un po’ russa.
Dall’Italia si fa sentire la voce di
Paolo Matthiae, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma,
che definisce “Palmira la città martire del patrimonio culturale mondiale”.
Le continue dichiarazioni degli specialisti italiani, che vantano ampia
esperienza negli scavi siriani, confermano il nostro interesse per il
tesoro storico di Palmira e, se un prossimo accordo tra Unesco e Siria
sarà siglato, come è molto probabile, c’è da ritenere che l’Italia
manterrà la sua promessa e farà egregiamente la sua parte.
Nel restauro di Palmira si sta giocando una partita d’importanza
geo-politica non secondaria, che vede attualmente la Russia in posizione
di assoluta forza, e gli USA del tutto tagliati fuori. L’Italia,
invece, quasi scalpita per partecipare, pronta a mostrarsi ancora una
volta al mondo in uno dei campi in cui eccelle.
deca
Zenobia di Palmira, la regina
che fece tremare Roma
A
dimostrare che, come tutti i fanatici, quelli dell’ISIS non capiscono
nulla, basta questo fatto: che fra tutte le città storiche si
intigniscono a voler distruggere Palmira.
Palmira, capite?
Che se
avessero un po’ di sale in zucca o qualche blando rudimento di
antichità, dovrebbe invece essere per loro un simbolo, un punto fermo
nella propaganda antioccidentale: Palmira, la città che per poco non
diventò una nuova Roma, e di Roma fu, per qualche anno, la rivale.
Palmira,
la regina del deserto, il punto di arrivo e di snodo di infinite
carovane. Per le sue piazze e nel suo suk si incrociavano le spezie e le
sete dell’Oriente lontano, portate a dorso di cammello attraverso le
sabbie. Nei suoi vicoli e nei suoi templi si intersecavano genti di ogni
origine, parlanti le lingue più diverse: arabo, persiano, greco,
latino.
Mercanti, intellettuali, mercenari, soldati. E poi ancora
carovanieri, sacerdoti, gran dame, beduini, faccendieri e sfaccendati di
ogni risma. Era un meraviglioso frullato di ogni cosa, Palmira, o forse
era solo la più perfetta summa di quello che il mondo antico sapeva
generare: un intarsio vivo e vivace di mille e mille destini e popoli.
A
governarla un sovrano, che è di origini arabe, ma fedele alleato dei
Romani. Si chiama Lucio Settimio Odenato, e nei turbolenti anni in cui
l’impero è in grande difficoltà salva i Romani, combattendo e tenendo
sotto controllo le frontiere con l’impero persiano. Ma non sarà lui a
rendere famosa per sempre Palmira, bensì la sua seconda moglie, una
ragazzetta bellissima, figlia di un capotribù locale: Zenobia.
Quando
arriva a corte Zenobia non è nessuno, o quasi. Il padre, un beduino del
deserto, è morto assassinato in qualche faida che non capiamo bene. Lei
viene data sposa al re forse per pregressi accordi fra famiglie. E’
giovane e molto bella. Le fonti la descrivono come scura di carnagione e
con grandi occhi neri in grado di sedurre interi popoli con un solo
sguardo. Ma non è il corpo quello che colpisce nella ragazza, bensì il
suo spirito indomito. Cresciuta fra i nomadi, è abituata a cavalcare e
combattere come un beduino: è una volpe del deserto, secoli prima di
Rommel.
Però non è una zotica incolta che conosce solo cammelli e piste
carovaniere: parla il dialetto della sua tribù ma anche l’egiziano e il
greco, e il latino. Si vanta di discendere da un’altra grande regina del
passato, Cleopatra. Come non è chiaro, e probabilmente la storia è una
bugia propagandistica che s’inventa lei. Ma se non ne ha il sangue, di
Cleopatra Zenobia ha certamente l’animo, e sicuramente la testa.
Quando
arriva a corte, nessuno scommetterebbe un baiocco su di lei. E’ la
seconda moglie di un re che ha già due figli maschi di primo letto e
quindi sicuri eredi: il destino sembra riservarle un futuro nell’ombra a
partorire inutili cadetti. Ma Zenobia è Zenobia, e l’ombra non fa per
lei. Si circonda di una corte vivace di intellettuali, che attira da
Atene e dalle altre città del Medioriente romano. Ma il predominio
culturale non le basta. Non appena partorisce un figlio maschio,
Vallodato, vuole garantirgli anche il trono. E se per farlo deve
eliminare marito e figliastri pazienza, si vede che il Fato prescrive
così.
Difatti,
quando il piccolo Vallodato non ha ancora un anno, diviene orfano di
padre e privo di fratelli: un cugino, tal Meonio, li uccide tutti
quanti, nel corso di una festa di famiglia. Non è certo che ad armarlo
sia Zenobia, ma è molto probabile, e lei si ritrova in men che non si
dica vedova e reggente di uno Stato ricco e fondamentale nella
scacchiera del Mediterraneo.
L’impero
romano c’è ancora ed è potente, ma è già acciaccato. Gli imperatori
corrono ai confini dell’Est per fermare o almeno arginare le prepotenze
dei Goti. E poi sono imperatori che muoiono come mosche: non fanno tempo
a salire sul trono che già scendono nella tomba. L’Occidente, anche se
non se ne rende conto, ha già imboccato la china discendente. Ma
l’Oriente no. L’Oriente è ricco, ed è ancora sicuro: è come un frutto
maturo che aspetta di essere colto. E Zenobia allunga la mano per
spiccarlo dal ramo e mordere la bella e succosa mela che il destino le
porge.
Conquista.
Non solo gli uomini, ma le città e gli Stati. Cilicia, Siria e poi
Bitinia ed infine l’Egitto. Novella Cleopatra, ricostruisce quel nucleo
di territori che la sua presunta ava si era fatta donare da Antonio, e
che forma il regno indipendente di Palmira. I suoi due consiglieri
fidati sono il generale Zabdas, infaticabile cavaliere che percorre le
strade d’Oriente a capo del suo esercito, e il raffinato retore Cassio
Longino, già maestro ad Atene e ora trapiantato nella perla del deserto.
E lei, la regina delle dune, per un attimo prova l’ebrezza di essere
davvero la padrona del mondo. Roma è un puntino lontano, una città
oscura e squassata dalle lotte interne del Senato e da imperatori ignavi
o sventurati, e Palmira invece è il futuro, il faro che riluce.
Sembra
che il destino di Roma sia segnato. E invece no. Con uno di quei colpi
di scena che la Storia talvolta riserva, le carte vengono scombinate e
il tavolo ribaltato all’improvviso. Sulla scena arriva un imprevisto: si
chiama Aureliano.
Sono
simili, in fondo, i due. La ragazzina venuta su fra i beduini del
deserto, scattante ed assetata di vita, che ha scalato la corte ed è
diventata regina, e il ragazzetto uscito dalle selve dei Balcani, che si
è arrampicato per tutti i gradi dell’esercito romano, fino a diventare
imperatore. Ragionano nello stesso modo, che è quello di chi ha poco
alle spalle e quello che ha lo ha conquistato pezzo a pezzo.
Sono duri,
in primis con se stessi, spregiudicati quando serve, poco avvezzi
all’autocommiserazione o ai rimorsi. Sono gente dal pensiero chiaro e
finalizzato all’obbiettivo da raggiungere: gente che taglia e sfronda
ciò che non è necessario, e non si perde in chiacchiere. Sono dei
conquistatori, sono dei re.
Per
questo si capiscono, e in fondo si rispettano. La loro lotta è senza
esclusioni di colpi, perché entrambi non sanno accettare nulla di meno
che una vittoria. Zenobia perde, alla fine, ma da regina. Per domare
Palmira, Aureliano, il grande condottiero, ha dovuto sputare sangue e
impegnarsi allo spasimo. Forse per questo, quando finalmente cattura la
regina, non si comporta come se avesse di fronte una donna, o uno
sconfitto, ma un suo pari.
Viene
presa prigioniera, ma ha salva la vita. I suoi sodali, il generale
Zabdas e Cassio Longino pagano con la morte la ribellione a Roma, lei
no. Aureliano la porta a Roma e la espone, legata con catene d’oro al
seguito del suo carro trionfale, ma non la uccide. Forse stregato dal
suo fascino, o più probabilmente colpito da quel carattere così indomito
e simile al suo, le dona una villa a Tivoli, dove Zenobia, dicono
alcune fonti, invecchierà circondata da filosofi e sposata con un ricco
senatore romano.
La donna che ha fatto tremare Roma viene da Roma
adottata come figlia, e alcune epigrafi ci parlano di sue discenti, a
buon diritto divenute parte dell’aristocrazia dell’urbe. Perché la
grandezza degli Stati e dei regimi si misura in questo: nella capacità
di rispettare i nemici e alla lunga assorbirli e farsi assorbire,
mischiando culture e tradizioni per creare il nuovo, anziché arroccarsi
nella tradizione per difendere una pretesa e stolida purezza.
Zenobia,
la figlia del deserto che rese grande Palmira, questo lo sapeva.
Difatti riuscì a creare un suo impero e poi persino da sconfitta ad
integrarsi in quello romano. Quelli dell’ISIS sanno solo sterminare
quelli che credono loro nemici e martellare opere d’arte senza creare
nulla.
Ecco, la differenza è tutta qui. Ma è abissale.
deca
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