Perché non c’è nulla di etico
nella vita di un vegano
È il 2017.
Secondo tutti i film prodotti quando l’umanità
pensava di poter curare gli omosessuali con gli schiaffi viviamo in un
futuro da fantascienza. Certo, non abbiamo macchine volanti, non viviamo
in un’era post-razziale o nelle colonie su Marte, però abbiamo l’etica.
E una bussola morale formata dalle gif di Beyoncé che ci spiegano come
navigarla.
Etica, infatti, è la parola del futuro. E quindi del nostro presente. Il lavoro è etico. La musica è etica. Lo sono le tasse. Anche le banche, ormai, sono etiche.
“Etica” è diventata la parola con cui definire noi stessi e chi ci
circonda. Dividiamo le persone in buone o cattive a seconda di quanto
rispecchiano la nostra idea di “etica”. Ma cosa si intende esattamente
con “etica”? Tutti i più grandi pensatori della storia hanno scritto e
dibattuto sul suo significato. Da Aristotele a Socrate, fino a Confucio.
Da Tommaso D’Aquino a Kant, fino a Giulia Innocenzi. Nessuno, prima di
lei, aveva però mai trovato una definizione precisa e sintetica di
“etica”.
Etica, sostiene la collaboratrice di Santoro nel suo libro “Tritacarne”, significa non uccidere gli animali.
Sarebbe intellettualmente disonesto, però, attribuire quest’idea esclusivamente alla giornalista de Il Falso Quotidiano;
una riflessione così complessa richiede un’estensione computazionale
non ascrivibile singolarmente a Giulia Innocenzi. Per arrivare a questa
epifania intellettuale sono stati necessari milioni di vegani nel mondo.
I vegani sono infatti ossessionati dalla parola “etica”. È
quella a cui ricorrono quando viene chiesto loro che cosa li abbia
spinti a cambiare dieta. È come definiscono loro stessi. Persone con etica.
Hanno pure creato il “Parma Etica Festival”,
una rassegna in cui si celebrano culture, tradizioni e usanze
alimentari allogene con il nobile scopo d’aiutare le persone a
dimenticare di vivere a Parma. Tre giorni di talk, workshop e seminari
sull’etica vegan e vegetariana. E sulla “psicogenealogia transgenerazionale”, una branca della psicologia che unisce le esperienze traumatiche dei tuoi avi del Rinascimento con le difficoltà di ricezione di Lifegate.
Ospite speciale del festival? Giulia Innocenzi.
Altro esempio di questa ossessione si può trovare nel ricettario-bibbia della comunità vegana italiana dal titolo “La cucina etica”.
Scopo dei suoi tre autori è quello di proporre ricette “etiche,
salutiste, ecologiche, spirituali, legate allo sviluppo sostenibile”.
Uno dei primi capitoli è dedicato alla quinoa.
La quinoa è considerata uno degli alimenti più nutrienti in natura ed
è utilizzata di frequente nelle diete vegane per l’alta concentrazione
di proteine che contiene; viene coltivata nei due Paesi più poveri del
Sud America stravolto
l’esistenza degli abitanti di entrambi i Paesi. Dal 2006 al 2011 il
prezzo della quinoa è triplicato, fino a raggiungere i 3mila euro la
tonnellata, ma alcune varietà più pregiate rossa real e nera possono superare i 4mila e gli 8mila euro. Perù e Bolivia e da quando è stata scoperta nelle “diete etiche” ha completamente
Per questo motivo in Bolivia, un Paese in cui il 45% della popolazione
vive con meno di 2 dollari al giorno, gli agricoltori hanno cambiato la
loro dieta, immutata per oltre 5mila anni. La quinoa, ormai troppo
preziosa per essere consumata localmente, viene quasi interamente
venduta o scambiata per Coca-Cola, dolciumi industriali e altri prodotti
della dieta occidentale.
La situazione è così grave da aver creato un inedito banditismo locale,
che lotta a colpi di rapimenti e di candelotti di dinamite per la
conquista di terreni coltivabili a quinoa. La diversità biologica delle
coltivazioni è stata inoltre quasi completamente distrutta per essere
convertita in una monocoltura di questa pianta. Per gli agricoltori non
avrebbe senso fare diversamente.
In Perù, dove il 22% della popolazione
vive in povertà, la situazione non è migliore. Un chilo di quinoa costa
dieci soles, circa 2,70 euro: più del pollo e quattro volte il riso.
Secondo le statistiche governative il consumo è crollato a livello
nazionale per questo motivo. Una notizia preoccupante, visto che proprio
per le eccezionali proprietà nutritive la quinoa risultava fondamentale
per sostenere la popolazione nelle zone più povere del Paese, colpite
da un livello di malnutrizione infantile fra i più alti in Sud America.
Secondo l’UNICEF il 19.5% dei bambini peruviani soffre oggi di malnutrizione cronica.
Il paradosso è evidente: mentre nei Paesi d’origine è diventato più
conveniente mangiare l’hamburger di una multinazionale, i ricchi europei
e americani possono consumare l’etico, salutista e sostenibile burger vegano di quinoa.
Magari con una maionese di anacardi, altro alimento necessario per mantenersi etici e che nei piatti vegani risulta fondamentale per simulare ricette
realizzabili tradizionalmente solo attraverso il latte animale, come la
besciamella, i “formaggi” da spalmare, il ripieno della cheesecake, i
gelati e le mousse.
Ma da dove arrivano gli anacardi che finiscono nei dolci cruelty free?
Per il 40% dal Vietnam, Paese che ha deciso di adottare per la loro
raccolta una filiera produttiva che ricorda le dittature più tiranniche
della storia, tipo la Corea del Nord di Kim Jong Un, la Romania di
Ceaușescu o la Apple di Steve Jobs.
Secondo un dettagliato reportage di Human Rights Watch,
gli anacardi vietnamiti provengono infatti quasi totalmente dal lavoro
forzato nei centri di recupero per tossicodipendenti condannati.
Moltissimi detenuti arrivano in questi centri senza essere stati difesi
da un avvocato e senza un regolare processo e sono costretti a lavorare
otto ore al giorno, sei giorni alla settimana, a un ritmo di estrazione
di un anacardo ogni sei secondi. Chi non rispetta questi standard
subisce svariate punizioni corporali: viene picchiato con bastoni
chiodati, rinchiuso in celle d’isolamento, costretto al digiuno e
privato dell’acqua. In molti casi torturato con l’elettroshock.
Per questo motivo Human Rights Watch li ha definiti “anacardi insanguinati”, come i diamanti africani.
La filiera però non termina in Vietnam: il 60% degli anacardi
viene processato nel Sud dell’India, nelle zone più povere del Paese.
Il guscio, spesso e resistente, viene spaccato a mano da donne che
lavorano sedute nella stessa posizione per dieci ore al giorno. Ma non è
la fatica il vero problema. Gli anacardi sono protetti da due gusci
interni che rilasciano un olio caustico
formato da acidi anacardici, cardolo e metilcardolo: queste sostanze
bruciano in modo profondo e permanente la pelle delle lavoratrici che
non possono permettersi dei guanti di protezione. Per la loro mansione
vengono infatti pagate appena 2,20 euro al giorno. In India gli anacardi
sono considerati un lusso da consumare solo durante le feste più
importanti. Così, alla fine dei turni, le operaie vengono anche
perquisite, come le donne in reggiseno e slip che tagliavano la cocaina
per Pablo Escobar.
Ma è facile dimenticare tutto questo quando ogni nervo nella tua lingua vibra dopo aver assaporato questa cheesecake
vegana crudista con fragole, mandorle e anacardi. Riesce a farti
pensare nello stesso momento “non riesco a credere che la dolce
cremosità non sia data da Philadelphia” e “fanculo le donne nel terzo
mondo”.
È utile parlare anche della base di questo dolce, capace di innalzare
lo spirito di chiunque da “crudo” a “etico”: è fatta di mandorle,
l’ennesimo alimento esploso in popolarità triplicato in 5 anni ,
grazie al suo apporto naturale di calcio, essenziale nella dieta
vegana. Da questi frutti si ricava un latte utilizzato per realizzare mozzarella, ricotta e molti altri tipi di formaggi e creme. La richiesta è aumentata a tal punto da costringerci a importarle quasi totalmente
dall’estero, nonostante le nostre millenarie tradizioni legate al loro
consumo. Principalmente dalla California, responsabile dell’82% della
produzione mondiale. Un quasi-monopolio in crescita costante, che ha
messo lo stato americano in ginocchio per il prosciugamento delle riserve idriche. Per produrre una singola mandorla sono necessari infatti oltre 4 litri d’acqua e la California ne produce ogni anno più di 950mila tonnellate. Le ripercussioni della siccità sulla fauna sono devastanti: sono
morti oltre 4mila cervi in un anno; alci, linci, volpi, coyote e orsi
sono talmente assetati da spingersi con sempre maggiore frequenza nelle
zone abitate dall’uomo. Diverse tribù di Nativi Americani stanno cercando di salvare
il salmone Chinook, un pesce fondamentale per la loro storia e cultura:
peccato che l’acqua che potrebbe evitarne l’estinzione venga deviata
per centinaia di km per essere usata nei frutteti di mandorle. con un prezzo
Ma a contribuire all’aridità dei terreni non sono solo le mandorle.
L’altro grande responsabile è forse l’alimento più rappresentativo della
moderna narrativa del cibo, passato da nutrimento a status symbol politico per food stylist: l’avocado. Per produrre mezzo kg di avocado vengono mediamente impiegati 270 litri d’acqua. Il risultato sono i quattro anni consecutivi in cui la California registra la peggior siccità della storia. Brindiamo con questo avocado alle mandorle offerto da “La cucina etica”!
Certo, c’è chi se la passa peggio.
Il vicino Messico in meno di 10 anni ha decuplicato gli export di avocado deforestazione
che tocca i 700 ettari all’anno; in dieci anni, per lasciare spazio ai
frutteti di avocado, è svanita un’area di foresta grande quattro volte
la Lombardia. Come per la California, questa perdita sta trasformando
radicalmente la vita di flora e fauna. Milioni di farfalle monarca
scelgono per la riproduzione e lo svernamento proprio le aree in
deforestazione del Michoacan, la capitale mondiale dell’avocado: senza
vegetazione il loro destino è l’estinzione. L’enorme quantità di
pesticidi e fertilizzanti necessari per la coltivazione degli avocado
stanno inoltre avvelenando le riserve acquifere da cui si abbeverano
animali e popolazione locale. Il controllo di questo enorme business è
in mano al cartello dei “Cavalieri Templari”, l’organizzazione criminale
responsabile della distribuzione di crystal meth negli Stati Uniti, che
ha scoperto un inedito pollice verde da quando i ricavi della vendita
di avocado sono passati dai 90milioni di dollari del 2000 agli 1.3
miliardi del 2012. conosciuto ormai da quelle parti come “oro verde” diventandone
il primo produttore al mondo. L’offerta, però, non riesce a soddisfare
la domanda. I prezzi in continua salita stanno portando a una
Le tattiche sono le stesse usate da tutti i mafiosi del mondo. Chi
non paga il pizzo si trova i frutteti bruciati. Chi prosegue nel non
assecondare i taglieggiatori va incontro alla morte o a quella dei
propri cari. Molteplici i casi di stupro. Un giornalista di Vocativ racconta la storia
del rapimento di due figli di un agricoltore. Per il riscatto da 1.5
milioni di dollari ha venduto tutto ciò che possedeva. I figli non li ha
mai più rivisti.
Per questo motivo si parla di “avocado insanguinati”. Come i diamanti. Come gli anacardi.
Ma persino gli avocado non sono nulla in confronto al più grande
distruttore di foreste del mondo: la soia. Per questo legume ogni anno
viene raso al suolo il 3% della foresta pluviale Argentina, situata
nella provincia di Cordoba. Otto milioni di ettari Italia e Germania. un’area grande quanto il Portogallo. In Brasile, dal 1978 a oggi, sono sparite invece
Ma a chi importa, no? Del resto la foresta pluviale serve solo a
produrre il 28% dell’ossigeno che respiriamo e a stabilizzare il
surriscaldamento globale attraverso l’assorbimento di anidride
carbonica. Certo, uccidere miliardi di persone facendo innalzare il
livello degli oceani a causa dello scioglimento dei ghiacciai è un equo
sacrificio rispetto alla vita di una quaglia del Molise, peccato che la
foresta contenga anche il 40% delle specie animali viventi.
Questo però non intacca lo status della soia come alimento principe della dieta vegana 952 ricette basate su questo ingrediente. Secondo una ricerca dell’università di Oxford,
il 73% dei vegani consumerebbe ogni giorno almeno 11 grammi di proteine
provenienti dalla soia, ricca inoltre di fibre e minerali che
altrimenti verrebbero a mancare nell’organismo di una persona che non
mangia carne. il sito de “La cucina etica” contiene
Ora so cosa staranno pensando i vegani. “La maggior parte della soia
viene coltivata come mangime animale, non per l’uomo!”. È vero, il 70%
della produzione mondiale di questo legume è destinata agli allevamenti
di bestiame, ma la nota lobby dell’industria della carne, conosciuta
anche come WWF, ha commissionato nel 2009 una ricerca alla Cranfield University
che riflette proprio su questo dettaglio. Lo scopo dello studio è
immaginare scenari che potrebbero ridurre del 70% l’emissione di gas
serra. I ricercatori giungono a questa conclusione: “sostituire latte e
carne con analoghi alimenti raffinati come il tofu potrebbe aumentare la
quantità di terreno arato necessario per soddisfare il fabbisogno
alimentare”.
Infine, se la propaganda “etica” funzionasse veramente e smettessimo
tutti di consumare prodotti animali, la deforestazione e il
surriscaldamento terreste aumenterebbero. Questo perché una vasta
quantità di alimenti consumati dai vegani richiede una lunga filiera di
lavorazione, dalla coltivazione a migliaia di km ai numerosi processi
necessari per trasformare la soia nell’unico alimento più insapore del
pollo: il tofu.
Provate a cercare un ristorante vegano interamente a km.0 nella vostra città. Non esiste. Il massimo che potete trovare è un ristorante possibilmente a km.0.
La verità, come ipotizza la ricerca del WWF, è che una cucina vegana
equilibrata non è sostenibile per l’ambiente. Certo, esiste chi si ciba
solo di frutti autoctoni, ma i rischi cui si va incontro sono una
carenza di calcio, una pericolosa mancanza di acidi grassi essenziali e
una predisposizione ad ascoltare Enya.
Perché, quindi, la giunta Appendino, dopo essersi insediata, ha parlato
di “promozione della dieta vegana sul territorio comunale come atto
fondamentale per salvaguardare l’ambiente, la salute e gli animali”?
Perché l’unica critica rivolta ai vegani è quella di essere vegani.
Basti pensare che negli ultimi anni hanno avuto come principale
antagonista intellettuale Giuseppe Cruciani, il conduttore di uno Zoo di
105 per uomini che scrivono “Liceo Classico” nella bio di Tinder.
Ma non c’è nulla di sbagliato nell’essere vegani, è una scelta personale, come tante altre.
Il problema nasce quando si passa da una scelta di vita a una
presunta scelta etica, motivata dal voler salvare l’ambiente o gli
animali. Questo significa mettersi in una posizione di superiorità
morale che semplicemente non trova corrispondenza nei fatti. È solo un
voler apparire ecologisti.
Il movimento vegano usa la parola “specista” per apostrofare chi
secondo gli adepti non mette vita animale e umana sul medesimo piano di
importanza. Quale parola dovremmo usare per identificare chi sceglie di
dare priorità alla propria coscienza piuttosto che alla vita, alla
salute e alla serenità di altri esseri umani? Soprattutto quando
parliamo di persone che vivono nei Paesi in via di sviluppo, mentre la
coscienza risiede in un corpo con un taglio asimmetrico che vive tra
Berlino, Milano o Londra.
Nessuno lo può sapere. L’unica cosa che possiamo fare, la prossima
volta che ci troveremo a mangiare in una hamburgheria artigianale con un
amico vegano, è aiutare chi ci sta di fronte a scegliere. Fra il burger
di quinoa con guacamole e mayo di mandorle e l’unica scelta etica
possibile: il digiuno.
deca
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