martedì 17 giugno 2014

ZOLFO : ORO DI LUCIFERO



L’oro del diavolo, lo Zolfo


Ovvero l'oro nero del Regno di Sicilia citeriore
ovvero il motivo principale per il quale James Mayer de Rothschild e Kalman Mayer Rothschild (con lo zampino della perfida Albione) obbligarono il fetido regno dei Savoia a compiere una missione umanitaria di pace in questo floridissimo ed evoluto paese italiano, compiere massacri indiscriminati ed impadronirsi di uno stato sovrano pacifico

di Fara Misuraca e Alfonso Grasso

Renato Guttuso, Zolfare di Sicilia

Nei millenni l’uomo ha imparato a utilizzare sempre più razionalmente le risorse agricole e minerarie che gli offriva la terra ma è solo nel Settecento, dopo l’invenzione della macchina a vapore, che il processo di sfruttamento intensivo delle risorse della terra iniziato in Inghilterra diede vita a quel fenomeno che chiamiamo rivoluzione industriale e dobbiamo aspettare i primi dell’Ottocento, con la nascita della chimica moderna si assiste ad un secondo e decisivo impulso alla industrializzazione della società occidentale.
Già a metà Ottocento la rivoluzione industriale interessava in modo significativo alcune aree dell’Europa del Nord (Francia del Nord-Est, Belgio, Olanda, Germania), fra queste non c’era l’Italia, né quella del Sud né quella del Nord.
Fu l’industrializzazione a far crescere in maniera esponenziale, impensabile in precedenza, la capacità di produrre beni e reddito, permettendo per la prima volta nella storia a milioni e milioni di persone di raggiungere livelli di benessere che sino ad allora, anche nelle società più opulente, erano stati riservati solo a gruppi molto ristretti di individui.
Fu anche l’industrializzazione a determinare differenze tra società industrializzate e società non industrializzate che risultarono abissali rispetto a quelle esistenti tra paesi ricchi e paesi poveri dell’epoca preindustriale.
Robert Fulton
Invenzioni, industrie e finanza
La rivoluzione industriale poggiò sulle solide basi delle scoperte scientifiche e tecnologiche effettuate nel corso del XVIII e XIX sec. L’applicazione nel settore tessile, nella metallurgia e nei trasporti della macchina a vapore perfezionata nel 1769 da James Watt contribuì al progresso della Gran Bretagna in maniera determinante. Tra il 1830 e il 1847 il numero delle macchine a vapore crebbe costantemente nell'Europa industrializzata. In Gran Bretagna passarono da 15 a 30 mila e in Francia da 3 a 5 mila.
Le nuove tecnologie consentirono la diffusione e l’uso di macchine agricole quali aratri, seminatrici e trebbiatrici meccaniche che consentirono l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione e di allevamento. Tutto ciò portò a un deciso aumento della redditività, con conseguente accumulo di capitale che, tramite le banche, furono messi a disposizione dell'industria. Questo circolo virtuoso si innescò solo nei paesi tecnologicamente più progrediti ed ebbe come protagonisti esclusivamente i grandi proprietari. I piccoli proprietari e il mondo agricolo delle regioni prevalentemente rurali come Spagna, Italia, Polonia o Russia, restarono ancorati al passato mantenendo metodi produttivi arretrati.
Questa serie di circostanze favorevoli, l’incremento dell'agricoltura e dei commerci, lo sviluppo della tecnologia e la conseguente espansione demografica, stanno alla base del processo di modernizzazione dell’umanità. Fioriscono così l’industria estrattiva del carbone, la siderurgia, la chimica e si diffonde un nuovo sistema economico, il capitalismo, basato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e dei capitali, si sviluppa il sistema bancario, nascono Le Borse.
La diffusione delle macchine a vapore causò l’intensificarsi dello sfruttamento delle miniere di carbone e i paesi come l'Inghilterra, la Francia, la Germania e il Belgio, che ne erano ricchi, furono avvantaggiati. Iniziò a svilupparsi la siderurgia, necessaria a fornire i metalli necessari alla costruzione delle macchine, nacquero gli altiforni per l'acciaio e la ghisa in Inghilterra e in Germania e parallelamente grazie al notevole impulso dato alla ricerca chimica sorsero come funghi industrie per la produzione di concimi, colori artificiali, zucchero, per la vulcanizzazione del caucciù.
Fondamentale per le industrie fu il supporto fornito da nuove ed efficaci reti di trasporto, sia per terra che per mare. Mettendo a frutto l'invenzione del treno, nella quale ebbero una parte decisiva gli inglesi George e Robert Stephenson, all'inizio del secolo vennero costruite le prime ferrovie, che nel 1850 si estendevano per 38 mila chilometri. Di questi 14 mila erano negli USA e 11 mila in Gran Bretagna. E fin dal 1807, da quando fu varato il vaporetto Clermont, grazie all’ingegno dell’americano Robert Fulton, iniziò a diffondersi la navigazione a vapore che fu immediatamente agevolata dall’invenzione del telegrafo, uno strumento per comunicare a distanza, perfezionato anch’esso dallo statunitense Samuel Morse nel 1844.
La prima locomotiva progettata da Robert Stephenson
L'allargamento della produzione industriale richiedeva una solida organizzazione finanziaria. Le banche seppero subito adeguarsi capendo che il loro ruolo era, principalmente, garantire alle imprese la possibilità di ottenere capitali in prestito. Accanto alle banche pubbliche, si svilupparono quelle private capitanate da vere e proprie dinastie come i Rotschild, i Parish, i Baring [1].
Le stesse imprese, crescendo, furono costrette a darsi un assetto più solido, nacquero così le Società per Azioni, in cui più capitalisti si legavano tra loro contribuendo con il proprio danaro. Per provvedere alla compravendita delle azioni, al cambio di valuta e al collocamento dei prestiti pubblici furono fondate le Borse. Londra e Parigi erano le più importanti.
Il nuovo sistema capitalistico mise le imprese di fronte alla realtà della concorrenza. Era necessario riuscire a produrre manufatti di qualità al prezzo minore possibile per assicurarsi la supremazia sul mercato.
Tutto ciò determinò un profondo mutamento sociale con la nascita della borghesia capitalista, detentrice dei mezzi di produzione e del proletariato, la cui unica ricchezza era la forza-lavoro.
George Stephenson
Gli operai lavoravano in condizioni tristissime nelle fabbriche. Per mitigare tale condizione in Francia nacquero le Società di mutuo soccorso e in Inghilterra le friendly o benefit societies e successivamente i lavoratori inglesi cominciano a riunirsi nelle Trade Unions, legalizzate nel 1871 [2]. La loro lotta in difesa degli operai fu molto difficile. Solo una piccola parte della borghesia era favorevole alle loro richieste. È solo del 1831 la prima legge a tutela dei bambini in Inghilterra, in Francia ne viene emanata una solo nel 1841.
In questo enorme fervore che ribolliva in tutta Europa e che si espandeva sempre più, un ruolo non di secondo piano avrebbe potuto giocarlo la Sicilia perché tra i minerali che stavano alla base dello sviluppo industriale si inserì prepotentemente lo Zolfo di cui l’isola era particolarmente ricca.
Lo zolfo è un elemento non metallico, ampiamente distribuito sulla superficie della terra. E 'insapore, inodore, insolubile in acqua, e si trova spesso in cristalli di colore giallo o in masse.
Il termine zolfo deriva etimologicamente dal latino sulfur, “Pietra che brucia”, ed è stato usato quasi intercambiabile con il termine per il fuoco. La traduzione inglese si riferisce allo zolfo come “brimstone”, pietra dell'orlo, perché si trova facilmente sul bordo dei crateri di vulcani.
Il termine siciliano “surfaru” deriva quasi certamente dall'arabo sufra, che vuol dire giallo.
Cristalli di Zolfo
A causa della sua combustibilità, lo zolfo è stato utilizzato per vari scopi almeno da 4.000 anni a questa parte: come fumigante, agente sbiancante e come incenso nei riti religiosi.
Omero menziona lo zolfo, usato come agente purificatore dopo la strage dei Proci, nell’Odissea nel IX secolo a.C., viene citato nel Genesi, e Plinio (23-27 d.C.) ha riferito che lo zolfo era un “singolare tipo di terra” con grande potere su altre sostanze, ricco di “virtù medicinali”.
I Romani usavano zolfo, o fumi causati dalla sua combustione, come insetticida e per purificare l’aria delle stanze dei malati, analogamente a quanto riporta Omero nell'Odissea.
Sia i Greci ed i Romani inoltre utilizzarono lo zolfo per produrre fuoco e giochi pirotecnici usati durante le rappresentazioni al Circo o nei teatri. Inoltre, miscelandolo con catrame, resina, bitume e altri combustibili riuscirono a produrre armi incendiarie che usarono nelle loro battaglie e nei lunghi assedi, ma queste conoscenze scomparvero in occidente con il declino dell'impero romano. Rimasero tuttavia in uso nell’impero romano d’oriente tanto che i Crociati, di ritorno dalla Terra Santa, portarono con loro la conoscenza della polvere da sparo, che era stato nel frattempo perfezionata dai cinesi e che consiste in una miscela di nitrato di potassio (KNO3), carbonio e, appunto, zolfo.
Acquisita la conoscenza della polvere da sparo, e compreso l’uso bellico dirompente che se ne poteva fare, in Europa l'uso della polvere da sparo cominciò a diventare significativo a partire dal XV secolo, gettando le basi per la fine della guerra di cavalleria. L'uso delle armi da fuoco personali fu un crescendo fino a metà del XIX secolo, raggiungendo l’apice con le Guerre napoleoniche, tra il 1792 ed il 1815.
Ma il grande impulso all’uso industriale “civile” dello zolfo coincise con la nascita della chimica moderna nel 1700 e il riconoscimento dell’acido solforico come uno degli acidi minerali più importanti e versatile.
Anche se è abbondante su scala mondiale, lo zolfo nativo si trova di solito in quantità relativamente piccole. La maggior quantità di zolfo presente in natura è combinato con altri elementi, in particolare i solfuri di rame, ferro, piombo e zinco, e i solfati di bario, calcio (comunemente conosciuto come gesso), magnesio e sodio.
Le prime civiltà non avevano avuto bisogno di molto zolfo e il loro fabbisogno era stato facilmente soddisfatto dai depositi di zolfo nativo superficiale vicini a vulcani attivi e spenti.
Lo zolfo usato da civiltà pre-romane era probabilmente ottenuto per riscaldamento di pirite di ferro o rame. Indagini archeologiche hanno rivelato che già i romani, che iniziarono a farne un uso più diffuso, ricavavano lo zolfo anche dalle miniere a cielo aperto etrusche e dalle miniere siciliane come documentato da Plinio.
Lo sfruttamento industriale e intensivo dello zolfo ebbe inizio nel 1736 quando si scoprì che da esso poteva ricavarsi l’acido solforico che, oltre ad essere un ottimo solvente, è anche un potente ossidante in grado di attaccare i metalli con formazione del solfato corrispondente e sviluppo d’idrogeno. Concentrato a caldo attacca anche alcuni metalli nobili e carbonizza la maggior parte delle sostanze organiche.
Altro anno importante fu il 1787, con la scoperta e la successiva fabbricazione della soda artificiale [3] con il metodo LeBlanc, trattando con acido solforico il comune sale da cucina [4].
Sin dai primi anni dell’Ottocento furono scoperti tantissime applicazioni industriali dell'acido solforico e della soda e, in conseguenza di ciò, si moltiplicarono in tutta l'Europa gli stabilimenti industriali per la loro preparazione. Ciò fece aumentare, ulteriormente, la richiesta di zolfo di cui la Sicilia era enormemente ricca.
Assieme all’uso industriale, a partire dal 1845, aumentò la richiesta dello zolfo per l’uso che s’iniziò a farne in agricoltura, soprattutto in polvere, per combattere l’oidio della vite e degli alberi da frutto. Oltre naturalmente all’utilizzo nell'industria bellica, per la preparazione della polvere nera, un potente esplosivo impiegato anche nelle miniere.
Queste importantissime scoperte ebbero come conseguenza la necessità di incrementare le industrie estrattive e la nascita delle prime miniere.
Dalla fine del 1700 alla fine del 1800, il 95% del fabbisogno di produzione del mondo è stato fornito dai depositi di zolfo siciliano, ma le pratiche monopolistiche e l’alto costo alla fine dirottarono i consumatori industriali verso altri paesi fornitori.
Lo Zolfo in Sicilia
Gli ultimi due secoli della storia sociale ed economica della Sicilia sono stati segnati, in maniera determinante, dall’attività estrattiva dello zolfo.
La scoperta dello zolfo in Sicilia risale ad epoche remote. Si può affermare con certezza che lo sfruttamento economico abbia avuto inizio tra 1580 e il1600. A quell’epoca, le borgate vicine alle aree interessate dal fenomeno “zolfo”, nel giro di pochissimo tempo, si trasformarono in veri e propri paesi, a causa dell’arrivo di persone interessate al lavoro, ma è a partire dal ‘700 che comincia a configurarsi l’attività produttiva connessa all’estrazione dello zolfo. In questo periodo il minerale viene utilizzato essenzialmente per la fabbricazione della polvere pirica e per la preparazione degli zolfanelli.
Cianciana, ingresso miniera di zolfo
L’industria solfifera siciliana nacque e si sviluppò in diretto collegamento con la moderna industria chimica europea, che incrementò notevolmente la domanda di zolfo, tanto che, all’inizio del XIX secolo, da una richiesta di poche migliaia di tonnellate si passò a milioni di tonnellate nel giro di pochi decenni per l’estendersi dell’uso dell’acido solforico e del consumo di polvere pirica. L’industria chimica europea, quella americana e quella giapponese, in questo periodo storico, dipesero quasi esclusivamente dallo zolfo siciliano. L’abate Francesco Ferrara, nel 1882, scriveva che “le miniere di zolfo sono così abbondanti che si dice trovarsene una in ogni sito nel quale si discola…”
Fino al 1904 la Sicilia ebbe il monopolio naturale dello zolfo, contribuendo alla produzione mondiale per il 91%.
Nel 1906 però vennero scoperti grossi giacimenti di zolfo, in Luisiana e nel Texas, negli Stati Uniti, e per l’estrazione fu messo a punto un nuovo metodo di fusione, denominato Frasch, dal nome del chimico tedesco Hermann Frasch, con il quale il minerale veniva estratto attraverso la perforazione del suolo e contemporaneamente fuso per mezzo del vapore, con una purezza del 99,5%. La facilità d’estrazione e il grado di purezza misero in concorrenza lo zolfo “americano”, togliendo alla Sicilia il monopolio da sempre detenuto e facendo scivolare il settore in una crisi che, di fatto, fu irreversibile.
Gli anni d’oro
A partire dal 1808-10 l’estrazione dello zolfo ebbe uno sviluppo vertiginoso. Tuttavia sia l’estrazione del minerale sia la sua commercializzazione erano integralmente nelle mani di capitalisti inglesi che non avevano ritenuto mai conveniente realizzare la trasformazione del minerale in Sicilia creandovi un’industria chimica e tutto ciò che noi oggi chiamiamo “indotto”.
Nel 1834 un censimento stimava oltre 200 miniere in attività il cui prodotto veniva spedito via mare in tutta Europa e negli Stati Uniti d'America.
Nella seconda metà dell’Ottocento, durante il regno di Ferdinando II, la Sicilia ebbe il monopolio della produzione mondiale di zolfo, ma non riuscì a creare una società industriale che ruotasse attorno a questo tesoro.
I guadagni che dettero le miniere furono notevoli e sua Maestà, Ferdinando II di Borbone che in un primo tempo aveva stabilito che i proprietari delle zolfare dovessero versare al fisco la decima parte dello zolfo estratto dalle miniere, in seguito, ritenendo che tale imposizione potesse rappresentare un ostacolo al progresso dell’industria e del commercio istituì un diritto fisso, pari a dieci once, detto “Diritto di apertura” che era pagato, dai proprietari delle miniere una sola volta, al tribunale del patrimonio, per ottenere il permesso d’apertura delle zolfare.
Nonostante il primato di produzione lo zolfo fu anche il segno tangibile della nostra subalternità ai mercati esteri sia per le modalità di produzione che del commercio [5].
L’apertura delle miniere, avviata nel 1808, al tempo dell’occupazione inglese durante le guerre napoleoniche, fece vivere alla Sicilia una sua particolare rivoluzione industriale che cresceva al crescere dell’industria inglese e francese.
In Sicilia l’attività mineraria fu tuttavia caratterizzata da uno sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli operai lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i braccianti che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle miniere. Questo ci fa capire quanto drammatiche fossero le condizioni dei lavoratori della terra. In miniera avevano per lo meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dall’agricoltura fu significativo e influì non poco nella diminuzione della produzione cerealicola dei latifondi.
Cianciana, zolfare
Nonostante si fosse venuto a creare un “proletariato industriale” enorme per quei tempi (le prime statistiche, risalenti al 1860, registrano la presenza nelle miniere di un’occupazione operaia di circa 16.000 unità) le connotazioni dello “sfruttamento” delle zolfare era di tipo prettamente coloniale. Tutto il prodotto era destinato all’estero allo stato grezzo e la commercializzazione era prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per lo più inglesi che si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando il pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema però accontentava tutti e cioè i proprietari delle miniere, che erano i grandi proprietari terrieri, i gabelloti, a cui era affidato lo “sfruttamento”, cioè la gestione dei singoli giacimenti, e gli operatori commerciali che agivano sul mercato estero.
Da questa situazione scaturiva una cultura di rapina e sfruttamento nei confronti degli operai.
I metodi di estrazione, per risparmiare, rimasero in uno stato quasi primitivo, tipico delle industrie coloniali. Con il beneplacito, al solito, dei baroni proprietari e soprattutto dei gabelloti che preferivano il guadagno immediato all’investimento per il futuro.
Una tale corsa alla produzione a basso costo portò spesso a crisi di sovrapproduzione e la situazione era diventata poco sostenibile per uno Stato che aspirava a diventare moderno.
La guerra degli zolfi
Nessuno può negare quanto gli Inglesi siano stati molto attenti, attivi e intraprendenti nel decidere le sorti dello zolfo siciliano a loro vantaggio. Molti forestieri e pochissimi siciliani si sono arricchiti con il nostro zolfo e quasi mai i proventi della vendita sono stati reinvestiti nella nostra Terra. Nel 1836 la produzione del minerale fu tanto elevata che l’offerta superò di molto la domanda e la saturazione del mercato portò ad una grande crisi del settore tanto che il governo borbonico, nel 1838, cercò di arginare questo stato di cose offrendo un accordo vantaggioso alla società francese Taix-Aycard & C. I ministri di Ferdinando II offrirono ai francesi il monopolio del commercio degli zolfi per dieci anni, l'acquisto di un quantitativo di zolfo pari ai 2/3 di quello estratto dalle miniere siciliane nell'anno precedente a quello della firma del contratto ma con un limite massimo di produzione annua. In cambio la Taix-Aycard si impegnava a fornire gratuitamente all'Amministrazione militare di Agrigento lo zolfo ad essa necessario, a realizzare una moderna raffineria di zolfo con due camere di sublimazione, un impianto industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata e l’impegno di addestrare manodopera locale. Inoltre, i Francesi si impegnavano a costruire, per tutto il periodo di validità del contratto, venti miglia di strade carraie all’anno e di versare, annualmente, al sovrano la somma di 400.000 ducati da utilizzare per la realizzazione di opere di pubblica utilità.
Ferdinando II di Borbone
Con la costituzione di questa Society, tra la Francia ed il Regno delle Due Sicilie, si istituì, di fatto, il monopolio degli zolfi in Europa. L’idea era di allentare la morsa del predominio economico inglese e permettere lo sviluppo di un’industria chimica siciliana.
Un tale accordo avrebbe dovuto essere accettato con grande entusiasmo e invece si costituì un “cartello” tra gli inglesi, i baroni siciliani proprietari delle miniere e i gabelloti che osteggiarono fortemente il progetto. I proprietari e i gabelloti videro nell’iniziativa del governo soltanto una diminuzione del loro profitto individuale e non i vantaggi generali ed a lungo termine per il Regno.
Nel contrasto con la Gran Bretagna il governo rimase isolato e finì col trovarsi tra due fuochi. Da una parte gli inglesi che minacciavano il ricorso alle armi, dall’altra i baroni siciliani e i gabelloti.
La diplomazia borbonica cercò aiuto all’Austria e alla Francia e fece anche delle pubbliche proteste contro gli Inglesi disponendo l’embargo per le navi inglesi. Re Ferdinando si trasferì in Sicilia per meglio gestire la questione ma non ebbe alcun aiuto sul piano internazionale e l’appoggio locale non fu adeguato. Fin dagli anni ’30 dell’800 si era sviluppato, infatti, un vivace dibattito tra protezionisti e liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo sviluppo economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di associazione che avrebbe consentito di aumentare non solo il capitale in denaro ma anche in macchine, strumenti, materie grezze e soprattutto in operai e dirigenti specializzati. Non dimentichiamo infatti che le nostre università vantavano cattedre di teologia, di filosofia, di economia, di lingue orientali, di astronomia ma mancavano di cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia inerente la gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere quell’”arte” che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare operai qualificati.
Secondo Lord Lyndhurst, gli Inglesi in Sicilia perdevano mille sterline al giorno, una somma notevole, per cui protestarono, prima diplomaticamente e, nulla avendo ottenuto, ricorsero alla forza. La flotta britannica, comandata dall'ammiraglio Stopford, assediò il porto di Napoli, catturando alcune navi francesi.

 

A questo punto la Corte di Napoli, dato che la Francia si era impegnata a mediare nella questione, inviò a Parigi il Conte Ferdinando Lucchesi-Palli dei Principi di Campofranco e, a seguito dei colloqui diplomatici, fu redatto un “Conclusum”, a firma del Ministro Thiers, con il quale gli Inglesi restituirono le navi catturate e fu dichiarato che pur non essendo stato violato alcun trattato non era conforme al sistema di buona economia (sic!) quanto era stato praticato per il commercio dello zolfo. In conseguenza di ciò, con il decreto del 21 luglio 1840, fu impostato lo scioglimento della società e Ferdinando II fu praticamente costretto a revocare l’accordo con la Taix-Aycard. Al danno si aggiunse la beffa perché il governo dovette risarcire sia i francesi che gli inglesi.
Abbattuto il monopolio, l’industria estrattiva non registrò grosse perdite in quanto la diminuzione del prezzo dello zolfo fu compensata dalla diminuzione del salario degli operai ma a partire dal 1845 si ebbe una ripresa del settore, in quanto lo zolfo incominciò ad essere utilizzato anche in campo agricolo per combattere l’oidio della vite e dei frutteti.
L’inizio della fine
In Sicilia, alla fine degli anni 80 dell’ottocento, erano sorte delle organizzazioni di lavoratori chiamate “Fasci”, e proprio in quel periodo, la Sicilia andava perdendo il ruolo di principale esportatrice dello zolfo, con la concorrenza, sui principali mercati europei, di quello americano.
Il 17 dicembre 1892 a Grotte i soci del circolo Savonarola fondarono il “Fascio dei lavoratori” che, in breve tempo diventò il più importante della provincia di Agrigento, e proprio a Grotte, il 12 ottobre 1893, si tenne il primo congresso dei minatori siciliani, organizzato dai fasci di Grotte e Racalmuto, al quale parteciparono i fasci di Aragona, Campofranco, e Casteltermini con più di mille lavoratori ed anche i piccoli “gabelloti”, che si reputavano sfruttati dai proprietari delle miniere, in quanto costoro esigevano una quota di “estaglio” [6] molto alta, sul quantitativo estratto dalle minire, indipendentemente dalla ricchezza o meno del bacino, o che la miniera si trovasse invasa dalle acque e inagibile, cosa peraltro, molto frequente considerando gli inadeguati sistemi di eduzione.
In conseguenza delle ricorrenti crisi nelle zolfare dovute, soprattutto alla perdita dei mercati esteri, nel 1896, sotto la direzione di Ignazio Florio, venne costituita una società con gli inglesi la “The English Sicilian Sulphur Company”, che, per dieci anni, sino al 1906 ebbe quasi il monopolio della produzione dello zolfo siciliano. Alla società, però, aderì solamente il 60% dei produttori.
Il massimo delle produzione si raggiunse nel 1899. Difatti dalle 733 zolfare in attività furono estratte 3.550.000 tonnellate di minerale solfifero, con una produzione di zolfo fuso di 537.000 tonnellate, pari agli 8/10 di quella mondiale, con l’impiego di 38.200 addetti.
Tale livello produttivo si mantenne invariato fino agli inizi del Novecento e la Sicilia ebbe il monopolio naturale dello zolfo, contribuendo alla produzione mondiale per il 91% sino a quando la produzione americana incominciò a far sentire il suo peso sull’economia del settore e portò a crisi ricorrenti e di entità sempre maggiori che costrinse migliaia di operai rimasti senza lavoro ad emigrare fino ad arrivare a una crisi irreversibile, che ha determinato contestualmente la cessazione di ogni attività lavorativa e l’abbandono di un patrimonio ingente, i cui “segni” persistono ancora oggi, riconoscibili nelle strutture ormai obsolete degli impianti dei bacini minerari.
Nel 1906 la società anglo-sicula, allo scadere del secondo quinquennio di contratto, non raggiunse l’obbiettivo di limitare l’estrazione degli zolfi e una notevole quantità di prodotto invenduto cominciò ad accumularsi nei magazzini. Considerato inoltre, che lo zolfo americano, incominciava ad essere importato anche in Europa a prezzi molto concorrenziali, la società venne sciolta e la crisi zolfifera divenne sempre più pesante. La gente continuava ad emigrare.
Il Governo allora, con la legge n. 333 del 15 luglio 1906, istituì il “Consorzio Obbligatorio per l’Industria Zolfifera Siciliana” della durata di dodici anni, che poteva essere prorogata. Il consorzio si occupò esclusivamente del commercio dello zolfo in tutti i mercati e il ricavato delle vendite, detratte le spese, ripartito ai produttori, proprietari od esercenti, in funzione delle quantità di prodotto conferite.
La sede centrale di Palermo coordinava le agenzie presenti nei porti di Catania, Licata, Porto Empedocle e Termini Imerese, dove veniva ammassato lo zolfo dei consorziati, in attesa della vendita. Lo zolfo veniva classificato secondo la qualità. Il prodotto migliore era quello di color giallo, considerato di prima qualità. Seguiva quella di seconda e terza, in funzione delle inclusioni presenti. Agli esercenti veniva dato un anticipo in denaro e il saldo era liquidato dopo la vendita.
Nel 1915, allo scoppio della I Guerra Mondiale, l’industria zolfifera ebbe una buona ripresa grazie all’aumento della domanda dello zolfo utilizzato ai fini bellici.
Nel 1919 venne istituito l’Ente Autonomo per il progresso Tecnico ed Economico dell’Industria Zolfifera che si occupò della elettrificazione delle zolfare.
Ma ormai non c’era più speranza alcuna di ripresa, il 1921 fu considerato l’anno peggiore per l’industria zolfifera e le esportazioni, a causa della pressante concorrenza americana, si contrassero drasticamente.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale, le piccole miniere a poco a poco furono costrette a chiudere. L’attività di estrazione continuò solo in quelle più grandi ed in quelle ammodernate.
Intanto il 29 luglio 1927 fu varata la legge n.1443 che prevedeva l’abolizione della proprietà privata del sottosuolo: doveva essere lo stato a darlo in concessione ai privati in possesso dei necessari requisiti.
Nel 1932 il Consorzio zolfifero venne sciolto e nel mese di dicembre dello stesso anno venne istituito l’Ente Nazionale dello Zolfo.
Per fronteggiare la concorrenza americana, nel 1933 fu costituito l’Italzolfi con lo scopo di raggiungere degli accordi con gli Stati Uniti per la vendita dello zolfo, limitare la produzione con delle quote fisse di estrazione, garantire un prezzo minimo di vendita.
Nel 1940 l’Italzolfi fu sostituito dall’Ente Zolfi italiani con lo scopo di ridurre gli estagli dei proprietari e rinnovare le tecniche di estrazione per diminuire i costi di produzione.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale i minatori, come tutti gli uomini abili, andarono a combattere e le zolfare, soprattutto quelle più piccole, chiusero.
Nel dopoguerra, le miniere, che erano riuscite a resistere erano ormai obsolete e scarsamente redditizie. Tra gli anni 50 e 60 del novecento, a protezione del settore, si emanò una serie di provvedimenti legislativi consistenti in interventi intesi a sovvenzionare direttamente le imprese minerarie mantenendo, per il Mercato nazionale, un prezzo politico superiore a quello internazionale. Questo non fu più possibile dopo l'avvento della Comunità Economica Europea. Però per motivi di ordine sociale e mantenere un minimo di livello occupazionale si cercò di mantenere in vita le ultime miniere rimaste, rimettendoci economicamente.
Le miniere ancora in attività nel 1964 furono rilevate dalla Regione Siciliana ed affidate in gestione all’Ente Minerario Siciliano (E.M.S), secondo un programma di assetto che portò al chiusura di quelle eccessivamente marginali o in fase di esaurimento di minerale, e fu favorito l'esodo volontario di circa duemila addetti. Nel 1967 quelle ancora in attività passarono alla Società Chimica Mineraria Siciliana, la SO.CHI.MI.SI.
Anche la gestione pubblica delle ultime miniere rimaste, però, non riuscì ad arrestare la gravissima ed ormai irreversibile crisi che aveva investito il settore zolfifero.
Nel 1970 erano attive solo dodici miniere dove erano occupati circa tremilacinquecento lavoratori: Ciavolotta, Cozzodisi, Gibellini, Lucia e Stretto Cuvello in provincia di Agrigento; Gessolungo, La Grasta, Muculufa e Trabonella in provincia di Caltanissetta; Floristella, Giumentaro e Zimbalio Giangagliano in provincia di Enna.
Nel 1975 erano aperte solamente quattro miniere, anch'esse costrette a chiudere dopo qualche anno.
Fu la L. R. n. 34/88 che sancì la chiusura definitiva di tutte le miniere di zolfo siciliane, già poste in stato di potenziale coltivazione, veniva effettuata, cioè, solamente la manutenzione delle gallerie e l'eduzione delle acque.
Riassumendo, la gravissima crisi che ha travagliato il settore zolfifero fu determinata dall'aumento dei costi di produzione soprattutto a causa degli aumenti del costo del lavoro e del progressivo impoverimento del materiale solfifero; dalla contrazione del prezzo internazionale dello zolfo; dalla concorrenza americana che usava metodi di estrazione del minerale d'avanguardia del tutto diversi da quelli adottati nelle miniere siciliane: basti pensare alle sonde Frasch e soprattutto allo zolfo ricavato come sottoprodotto della raffinazione del petrolio. Con tali metodi si ottenevano costi di produzione molto bassi, non influenzati dal continuo aumento del costo del lavoro, al contrario della Sicilia dove incideva per circa l'ottanta per cento sul totale del costo di estrazione. Le produzioni a livello mondiale erano aumentate in maniera notevolissima mentre, al contrario, quelle siciliane erano diventate insignificanti.
La Miniera
Quella della zolfara è una storia di miseria, di sfruttamento, di sofferenze, di morte, di abbrutimento, anche degli stessi “gabelloti” che apparivano aguzzini agli occhi dei minatori. Ciò, certamente non giustifica la loro condotta e la loro smania arricchirsi. Ben rende questo clima Luigi Pirandello, che così scrive nella novella Il Fumo: “Chi erano, infatti, per la maggior parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivare la zolfara presa in affitto dai mercanti di zolfo delle marine, che li assoggettavano ad altre usure ed altre soperchierie. Tirati i conti, che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano laggiù, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio, fame, miseria per tutti, per i produttori, per i picconieri, per quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore alle loro forze, su e giù per le gallerie e le scale della buca”.
Sebastiano Addamo, Zolfare di Sicilia, Sellerio editore
La miniera secondo criteri scientifici, corrisponde all'intero deposito minerario di una determinata zona, ma in Sicilia il termine miniera si faceva corrispondere ai confini di proprietà del suolo. Uno stesso giacimento pertanto poteva essere frazionato in numerose concessioni, rendendone antieconomico lo sfruttamento. Dando in gabella la miniera frazionata si contribuiva alla formazione di elevati estagli, così si chiamava il canone di affitto, causando un aumento del costo del minerale: il gabelloto aveva pertanto interesse a sovra produrre e a sfruttare quanto più possibile sia le miniere che la manodopera.
Nel 1890 erano attive in tutta la Sicilia circa 480 miniere e di queste solo 52 erano “coltivate” direttamente dai proprietari in genere appartenenti a famiglie aristocratiche o ad ordini religiosi, tutte le altre erano concesse a gabella, la cui durata andava da 9-12 anni fino, talvolta, a 20 anni.
Il canone di affitto, come detto in precedenza, veniva corrisposto in natura, con una parte dello zolfo ottenuto dalla fusione, chiamato estaglio, e che corrispondeva mediamente al 25% della produzione totale. La gabella mineraria era una sorta di contratto di appalto che imponeva al gabellota sia il sistema di coltivazione (generalmente quello a colonne, archi e pasture di cui si stabilivano per ogni miniera numero, spessore e dimensioni dei pilastri, delle volte e del suolo di lavorazione, come pure l'inclinazione e la profondità delle scale delle gallerie) sia la supervisione del proprietario o di un suo fiduciario.
Strutturalmente una miniera era costituita da una serie di gallerie sotterranee, disposte su più livelli, che crescevano di numero man mano che si procedeva all’estrazione del minerale.
La coltivazione delle miniere, per farle fruttare il più possibile, non avveniva in modo razionale, infatti venivano spesso tralasciati i lavori di tracciamento per una buona ventilazione e l'obbligo contrattuale di procedere all'abbattimento delle sovrastrutture induceva il gabelloto a non costruirle e a servirsi di strette calature a forma di camini inclinati, le “discenderie” provviste di gradini per il transito degli operai e il trasporto all’esterno del materiale. L’areazione nelle miniere più primitive, era data dalla sola apertura all’imbocco della galleria, per cui, la ventilazione era difettosa e, spesso, si verificava l’accumulo di gas asfissianti (acido carbonico chiamato “rinchiusu” dai minatori) o di gas esplodenti (idrogeno solforato o “antimoniu”), facilmente infiammabili per l’uso delle lumere e successivamente delle lanterne ad acetilene (a citalena).
Scrive Leonardo Sciascia (Le parrocchie di Regalpetra, Aldelphi, 1991)
“Pròvati, pròvati a scendere per i dirupi di quelle scale, visita quegli immensi vuoti, quel dedalei andirivieni, fangosi, esuberanti di pestifere esalazioni, illuminati tetramente dalle fuligginose fiamme delle candele ad olio: caldo afoso, opprimente, bestemmie, un rimbombare di colpi di piccone, riprodotto dagli echi, dappertutto uomini nudi, stillanti sudore, uomini che respirano affannosamente, giovani stanchi, che si trascinano a stento per le lubriche scale, giovinetti, quasi fanciulli, a cui più si converrebbero e giocattoli, e baci, e tenere materne carezze, che prestano l’esile organismo all’ingrato lavoro per accrescere poi il numero dei miseri deformi. E quando dalla notte della zolfara i picconieri e i carusi ascendevano all’incredibile giorno della domenica, le case nel sole o la pioggia che batteva sui tetti, non potevano che rifiutarlo, cercare nel vino un diverso modo di sprofondare nella notte, senza pensiero, senza sentimento del mondo.
Il personale delle miniere constava di un numero elevato e diversificato di addetti in relazione al tipo di prestazione esercitata. Era costituito da operai che lavoravano all’interno della miniera, per la costruzione e manutenzione delle gallerie, l’abbattimento ed il trasporto del minerale e da operai che lavoravano all’esterno il materiale estratto e attendevano a tutte le mansioni che richieste nel processo produttivo.
Lo scarso livello tecnico dei lavori di preparazione era spesso causa di crolli che seppellivano intere squadre di operai.
Artefici principali nell’estrazione dello zolfo erano i picconatori, i “pirriatura” o “picunieri”, cioè coloro che individuavano il filone zolfifero e staccavano a picconate il minerale dalle pareti di roccia. Il loro lavoro era duro e rischioso per la elevata temperatura, la poca luce e ventilazione e per l'aria sempre impregnata di gas e polvere. Tra il gabellota e il picconiere il rapporto di lavoro era regolato da un contratto a cottimo: il gabellota pagava un tanto per una certa quantità di zolfo estratto e trasportato fino al piano della miniera. L'orario di lavoro era, teoricamente, di circa otto ore al giorno e la retribuzione media oscillava alla fine dell'Ottocento da 2 a 3 lire. Ovviamente l'esercente metteva in atto tutte le forme più diffuse di sfruttamento come la corresponsione irregolare o la pratica del truck system [7].
Carusi che trasportano il minerale. Tratto da www.irsap-agrigentum.it/carusi.html
Compagni inseparabili e complemento dei “pirriatura” erano i “carusi”, bambini di età tra i sette ed i quindici anni cui era affidato il compito di trasportare a spalla, fuori dalla miniera, il materiale zolfifero. I carusi erano legati al picconiere da contratti orali di cottimo, con un compenso fisso per ogni cassa di zolfo trasportata. Ogni picconiere disponeva da due a sei carusi. Il picconiere “affittava” i carusi anticipando una somma di denaro, detto soccorso morto, alle famiglie dei carusi.
Una volta trasportato all’esterno, i “carcarunara” sistemavano il materiale zolfifero nei forni e gli “arditura”, davano fuoco e controllavano la fusione e la colatura del liquido nelle forme di legno, dove si sarebbe solidificato in “balate”.
La direzione dei lavori era affidata ai capomastri, di solito ex picconieri, che avevano maturato esperienza attraverso il loro lavoro.
Solo dopo il 1864, anno in cui si avvia la Scuola Mineraria di Caltanissetta, le miniere più grandi furono dirette da periti e capominatori ben preparati.
La fusione dello zolfo: Calcarelle, Calcaroni, Forni Gill e impianti di Flottazione
Una volta portato in superficie lo zolfo doveva essere separato dalla ganga. L'estrazione dello zolfo avveniva in speciali forni detti “calcaroni” e in tempi più recenti in forni “Gill” o per flottazione.
Il metodo più antico di fusione fu quello della “calcarella”, una piccola fornace del diametro di circa due metri con un suolo a piano inclinato necessario per fare confluire verso il foro di uscita (la “morte”) lo zolfo liquido.
Il sistema di fusione delle Calcarelle fu usato fino alla prima metà del 1800. Questo forno arcaico veniva riempito fino all’orlo e, appiccato il fuoco al cumulo, si attendeva la fusione. Il processo durava circa 6-7 ore lo zolfo cominciava a colare dalla “morte” dentro appositi recipienti di legno, “gaviti” e, dopo il raffreddamento ed il consolidamento, confezionato in forme tronco-piramidali dette “balati”.
Questa tecnologia arcaica era fortemente inquinante per l'aria e per i terreni circostanti, tanto che per molti decenni non fu possibile coltivare i terreni in vicinanza delle calcarelle.
Anche la resa era modesta, poiché veniva bruciato e quindi perso, circa il 60% del prodotto.
Durante un incendio, avvenuto nel 1842 in una miniera presso Favara in Sicilia gli uomini, non disponendo di acqua, pensarono bene di soffocare il fuoco coprendo il minerale con terra e pietre. Dopo circa un mese da sotto quella massa cominciò a scorrere zolfo puro di qualità superiore a quella che la miniera aveva sempre dato. Fu così che, intorno alla metà del 1800, venne messo a punto il “calcarone, sistema di fusione sostanzialmente simile al precedente, ma caratterizzato da una copertura sommitale che aveva lo scopo di frenare e rendere meno viva la combustione e da una resa superiore del prodotto, che colava in grana più fine e colorito migliore. E soprattutto non si correva il rischio di perdere il prodotto nel caso di avverse condizioni atmosferiche e la produzione di anidride solforosa era più limitata.
Con questo sistema si ottenne un notevole aumento della produzione e gli operai che si occupavano del caricamento e quelli che curavano le fasi della fusione, carcarunara e arditura, divennero figure determinanti per la buona riuscita delle fusioni.
Uscita dell'ogliu dalla morte dal forno di fusione. Tratto da http://www.irsap-agrigentum.it/lavoratori1.html
I carcarunara, lavoravano in squadre di 20-30 e avevano un capo che stabiliva il contratto di cottimo, e si spostavano da una miniera all'altra durante la stagione estiva. Gli arditura controllavano tutte le fasi della fusione e della colatura dello zolfo fuso nei gaviti da dove si estraevano i balati o pani di zolfo solido che venivano spediti, tramite carri o ferrovia, ai porti di imbarco. Questi operai erano meglio pagati poiché gli si richiedeva notevole esperienza ed abilità nel controllo della combustione.
In realtà l’ambiente delle zolfare era intriso di feudalità e la sua economia era soggetta alle continue variazioni del mercato internazionale. Inoltre molti erano i mercanti stranieri che affittavano le miniere in Sicilia: a Lercara, ad esempio, c’erano gli inglesi Gardner e Rose e il console svizzero Hirzel.
Furono proprio i mercanti inglesi, quegli stessi inglesi che si opposero con la forza a che le miniere siciliane fossero “modernizzate” dai mercanti francesi, ad adottare l'odiosa pratica del “Truck system”, un sistema escogitato per ridurre i costi di produzione a spese dei minatori.
Il metodo dei Calcaroni continuò, però, a produrre danni all’ambiente ed alle colture circostanti.
Le proteste degli agricoltori e le denuncie delle amministrazioni comunali contro i danni provocati dall’anidride solforosa furono tali e tante che l’intendenza di Girgenti e Caltanissetta furono costrette ad emanare una serie di regolamenti tra i quali si prescriveva che questi impianti fossero installati ad una distanza non inferiore a 3 chilometri dai centri abitati ma che, ovviamente, non riuscirono ad eliminare il problema.
Molti furono i tentativi di trovare modi di fusione meno inquinanti come il forno Durand o il forno Hirzel, che però ebbero scarsi risultati, fu solo nel 1880 venne messo a punto nelle miniere Gibellini e Ragalmuto un nuovo tipo di forno, il Forno Gill, che prendeva il nome del suo ideatore, l’ingegnere Robert Gill [8].
Il forno Gill, come il calcarone, funzionava usando lo zolfo come combustibile per la fusione dello zolfo stesso, ma aveva diversi vantaggi: era riparato dall’azione degli agenti atmosferici, la produzione poteva svolgersi tutto l’anno con qualsiasi tempo e la perdita di zolfo era appena del 15-25%.
Solo verso la metà del XX secolo l’industria estrattiva dello zolfo si avvalse degli impianti di flottazione., l'unica alternativa concreta ai vari sistemi di fusione sperimentati ed utilizzati in prossimità delle miniere
Questo sistema, che entrò in uso solo nell’ultimo periodo delle miniere, in quella fase ormai di dismissione dell'attività estrattiva dello zolfo siciliano, consisteva nella separazione del minerale dalla ganga con l'utilizzo di sostanze e procedure che ne favoriscono il distacco. In pratica il materiale estratto veniva finemente triturato e messo in sospensione, in apposite celle, in un liquido (acqua e oli) a formare una miscela, la “torbida”. Nelle celle di flottazione la “torbida” veniva agitata meccanicamente fino alla formazione di una schiuma, con la conseguente separazione dello zolfo dalla ganga. L’impianto di flottazione consentì un recupero di zolfo fino al 99,5%.
I più importanti progressi dell'industria solfifera si avranno verso il 1870/80 quando saranno introdotti l'estrazione meccanica per i pozzi verticali, l'eduzione delle acque per mezzo di motori a vapore e agli inizi del XX secolo con l'applicazione dell'energia elettrica.
Tuttavia le basi dell'industria mineraria siciliana rimarranno sempre deboli e non consentiranno il formarsi di una forte borghesia imprenditoriale; i gabelloti, vessati da rapporti di produzione di tipo feudale e soggetti alle brusche oscillazioni del mercato solfifero, spesso andavano incontro al fallimento, come successe alla famiglia Pirandello, non permettendo il costituirsi di una struttura imprenditoriale solida e stabile.
Le condizioni dei lavoratori nelle zolfare siciliane
Un'inchiesta di Vittorio Savorini sulle condizioni economiche e sociali dei lavoratori nelle miniere di zolfo nel girgentano, che risale al periodo tra il 1870 e il 1880, ci dice che nelle 72 miniere prese in considerazione lavorano 69 capimastri, 110 tra catastieri, pesatori e scrivani, 956 picconieri, 2626 carusi, 114 donne. La media dei salari giornalieri era : capimastri lire 3, picconieri lire 2, donne 0,70 centesimi [9], carusi da 7 a 15 anni centesimi 0,85 (ma alcune miniere pagavano anche 0,35 centesimi o lire 1,25 oltre gli undici anni d'età).
I carusi, bambini in gran parte dai 7 ai 12 anni, erano uno strumento del picconatore alla stessa stregua del piccone e della pala. Questi bambini schiavi venivano ceduti dalle famiglie ai picconatori con un sistema detto «soccorso morto», consistente nell'anticipare al massimo cento o duecento lire alla famiglia avendone in cambio l'uso del bambino per un certo numero di anni.
Scrive Savorini:
È a causa di questo preesistente debito che il caruso non riceverà altro che acconti e quel che è peggio quasi sempre in natura, che sono tra gli zolfatai chiamati “spesa”, e consistono in farina di grano, in olio e spesso in solo pane. E questi generi, sempre di pessima qualità, sono poi conteggiati a un prezzo superiore.
Dal lavoro in miniera, il caruso resterà segnato per tutta la vita. Oltre a subire innumerevoli abusi sessuali non denunziati e violenze d'ogni tipo, lo schiavo caruso comincia a patire di malattie agli occhi, di rachitismo, di deviazione della colonna vertebrale.
Riporto una tabella dal Savorini che riguarda la leva del 1875 nei paesi di Grotte, Favara, Comitini, Aragona: Iscritti alle liste: 482; zolfatai 203; Abili 81; Inabili (tutti appartenenti al distretto minerario): 6 per gracilità, 6 per deviazione della colonna vertebrale, 52 per rachitismo. Gli altri, rivedibili.
Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane
(tratto dall’inchiesta “La Sicilia nel 1876” di L. Franchetti e S. Sonnino)
Sicilia, Carusi all’imbocco di un pozzo della zolfara, 1899.
Foto di Eugenio Interguglielmi,(1850-1911)
Nelle province di Girgenti e di Caltanissetta avvengono sotto i nostri occhi, parecchie ingiustizie verso i minori che vengono sfruttati nel lavoro delle miniere. Le miniere di zolfo in Sicilia variano moltissimo le une dalle altre per il numero, la lunghezza e la profondità delle gallerie di estrazione, a seconda delle grandi varietà di giacimento degli strati del minerale, e anche dello sminuzzamento della proprietà del suolo alla superficie. I metodi di estrazione dello zolfo sono simili in quasi tutte le miniere, e il lavoro è uguale per tutti, sia per grandi che per piccoli. Il lavoro è molto faticoso a causa dell’inclinazione dei pozzi d’estrazione, solo alcune gallerie sono a leggero declino.
Nonostante l’impiego della tecnologia moderna per l’estrazione dello zolfo, il lavoro dei fanciulli si adopera per il trasporto dello zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde il pozzo verticale o la galleria orizzontale. In Sicilia il lavoro minorile nelle gallerie è più duro di quanto si possa immaginare, perché il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto del minerale sulla schiena, in sacchi o ceste: il materiale, dalla galleria dove viene scavato dal picconiere, viene portato al calcarone (si chiama la fornace in forma di conca che serve per fondere lo zolfo) per essere lavorato.
Il lavoro dei picconieri consiste nel rompere la roccia, che contiene zolfo, col piccone. Viene pagato per casse di minerali. Il “partitante”, o capo operaio, delegato dall’amministrazione, dà ai singoli picconieri lo stesso acconto che riceve lui sulle casse di minerali, riservando per sé il guadagno della compartecipazione dello zolfo fuso; o più spesso dà loro qualcosa di meno anche sul prezzo delle casse. La maggior parte delle volte il partitante paga a giornata calcolando questa in base ai tanti viaggi del ragazzo. Lui ha il giudizio delle quantità e qualità del minerale, poiché volta per volta esamina la cesta del ragazzo, e lo rimanda indietro quando il contenuto non sia di sua soddisfazione: il ragazzo è quello che ne busca.
I “carusi” sono quei poveri ragazzi che trasportano il minerale. La maggior parte dei carusi ha tra gli 8 e gli 11 anni, ma alcuni iniziano il loro lavoro a 7 anni. Ogni picconiere impiega in media da 2 a 4 carusi. Questi ragazzi percorrono coi carichi di minerale sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con pendenze talora ripidissime, e di cui l’angolo varia in media da 50 a 80 gradi. Gli scalini generalmente sono irregolari, più alti che larghi, sui quali ci si posa appena il piede. Le gallerie in medie sono alte 1.50 metri e larghe circa 1.10 metri, ma spesso anche meno. Il lavoro dei fanciulli nelle gallerie va dalle otto alle dieci ore al giorno e devono compiere durante queste un determinato numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalle gallerie di escavazione dello zolfo, mentre i ragazzi impiegati all’aria aperta lavorano dalle 11 alle 12 ore. Il carico varia a seconda dell’età e la forza del ragazzo, ma è sempre superiore a quanto possa portare una creatura di tenera età. I più piccoli trasportano un peso dai 25 ai 30 Kg, e quelli dai 16 in poi dai 70 agli 80 Kg. In media ogni carusu compie 29 viaggi di andata e 29 di ritorno. Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni sarà di £ 0.50, dei più piccoli e deboli £ 0.35; i ragazzi più grandi, di sedici e diciotto anni, guadagnano circa £ 1.50 e talvolta £ 2 e 2.50.
Accennati così sommariamente i fatti principali relativi al lavoro attuale dei ragazzi nelle zolfatare, sorge spontanea la domanda: Vi è modo di rimediare a tanto male, senza rovinare l’industria mineraria in Sicilia ?
Noi accenneremo soltanto le opinioni che si udirono pronunziare sulla questione da parecchi direttori ed amministratori di grandi zolfare.
Da una parte un amministratore di una vastissima zolfara si lamentava che il nuovo progetto di legge presentato al Parlamento, il quale mira a regolare il lavoro dei fanciulli nelle miniere, porterebbe infallibilmente alla rovina dell’industria dello zolfo. Questi diceva che il lavoro dei fanciulli era sempre indispensabile per portare il minerale dal luogo di escavazione al punto dove sbocca il pozzo di estrazione o la ferrovia inclinata, quindi doveva escogitare il modo per evitare la spesa per la costruzione di pozzi di estrazione.
In ogni caso le famiglie dei fanciulli si opporrebbero a qualunque diminuzione delle ore di lavoro che porterebbero ad una diminuzione dei loro guadagni.
Lo stesso amministratore osava affermare che i fanciulli attualmente non lavoravano mai più di 4 o 5 ore al giorno, e non sono impiegati che dai 12 anni in su.
Chiunque avesse visto il lavoro nelle zolfare siciliane, avrebbe potuto convincersi dell’insussistenza assoluta delle notizie fornite intorno alle ore di lavoro e all’età dei ragazzi.
Un capo ingegnere di una delle maggiori zolfare della Sicilia credeva che si poteva benissimo far a meno quasi del tutto del lavoro dei ragazzi con un sistema bene ordinato di gallerie inclinato, unite al pozzo di estrazione mediante alcune gallerie orizzontali. Egli riteneva che il risparmio del salario dei ragazzi avrebbe largamente compensato la maggiore spesa delle gallerie. Però nel caso di deviazioni forti nella direzione dei filoni, o di altri ostacoli, bisognava talvolta, per evitare la troppa spesa, fare delle gallerie irregolari come le attuali; e per quei tratti, conveniva sempre adoperare il lavoro dei ragazzi, che restavano soltanto in via di eccezione, come accadeva nelle miniere di carbon fossile. La nuova legge quindi non gli faceva nessuno spavento.
Se tali provvedimenti o altri simili non bastassero a togliere del tutto il lavoro dei fanciulli nelle miniere, diminuirebbero però di assai il numero necessario per l’andamento di una zolfara.
Riguardo a una legge tutelatrice dei fanciulli è non solo utile, ma indubbiamente necessaria e indispensabile, una legge che determinasse il minimo dell’età a cui si possano impiegare bambini nelle zolfare, regolando il lavoro dei minori. Purtroppo i genitori rovinano la salute fisica e morale delle loro creature per guadagnare di più, e nemmeno per campare, questo però non dovrebbe mai passare inosservato al legislatore.
Dopo questa lettura è bene ribadire un concetto, ancora agli inizi della seconda metà del XX secolo, attorno al 1950, l'estrazione dello zolfo nelle nostre miniere avveniva in maniera primordiale, arcaica. L'unica innovazione, forse, rispetto al sistema dei secoli precedenti era stata l'introduzione dei carrelli su rotaie (solo otto in tre miniere) e del piano inclinato che in qualche modo aveva alleviato la fatica e le sofferenze dei pochi carusi rimasti che da lì a pochi anni, chiuse definitivamente le miniere, avrebbero imboccato la via dell'emigrazione assieme ai loro padri e a tanti altri compagni di sventura. Non è difficile rendersi conto che in quel periodo di “rinascita” per il resto del paese, in zolfara, c'era ben poco, forse nulla, di moderno.
L'Italia era uscita dalla seconda guerra mondiale duramente provata e con un'economia da reinventare. La povertà diffusa, le case distrutte, l'inflazione elevata, il comparto agricolo stagnante non si presentarono come ostacoli insormontabili e in poco tempo la neonata Repubblica riuscì ad inserirsi tra le prime dieci potenze industriali del mondo. Alcuni fatti importanti avvengono nel primo decennio successivo alla conclusione della guerra: l'introduzione del suffragio universale, la proclamazione della Repubblica, l’entrata in vigore della Costituzione, l'Autonomia siciliana, il Piano Marshall, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la Riforma agraria.
La riforma agraria aggredì il latifondo ma non alleviò le sofferenze dei contadini; la Cassa per il Mezzogiorno avrebbe costruito cattedrali nel deserto e le zolfare siciliane continuarono a denunciare i mali di sempre: la produzione era drasticamente crollata (solo il 2% della produzione mondiale contro il 90% del secolo precedente); una tonnellata di zolfo siciliano costava il doppio di quello americano. Il numero degli occupati in miniera era sceso drasticamente.
Mentre nella Sicilia orientale l'agricoltura si riprendeva, a Ragusa veniva scoperto il petrolio e nasceva qualche industria, quella occidentale diventava sempre più povera e clientelare e la mafia riprendeva a far sentire il suono lugubre della lupara: 1947, assassinio di Accursio Miraglia e strage di Portella delle Ginestre; 1953, omicidio di Placido Rizzotto; 1955, assassinio di Salvatore Carnevale. L’industria estrattiva precipitava sempre più e i lavoratori delle miniere avrebbero iniziato una serie di scioperi per la salvaguardia del posto di lavoro, l’applicazione di un contratto nazionale di lavoro, l’ammodernamento delle strutture e l’istituzione di un’Azienda Zolfi Siciliani [10]. Tutto fu inutile. Nel 1975 erano aperte solamente quattro miniere, anch'esse costrette a chiudere dopo qualche anno.
Le miniere siciliane sono state chiuse e questa è la realtà. Svanì con esse il sogno di una ricchezza facile e generalizzata che aveva illuso per decenni non pochi conterranei. L'industria estrattiva siciliana, al di là della concorrenza americana, non poteva avere prospettive per carenza di capitali da investire, di infrastrutture, strade e ferrovie, per l’insufficienza dei porti, per mancanza di spirito associativo, per l'eccessivo sfruttamento degli zolfatari, per la pochezza dell'industria chimica siciliana. E perché, soprattutto, non si deve demandare ad altri quel che possiamo fare noi.
Ne resta un retaggio storico, letterario, antropologico, socio-culturale in genere che non deve essere assolutamente disperso perché fa parte del nostro essere siciliani e perché tanto può insegnare alle nuove generazioni. Fatica, sudore, lotte, amarezze, successi, rivivono magicamente percorrendo i cunicoli e le gallerie ormai deserte delle zolfare, testimoni silenti, ma non meno efficaci, di vita e di morte.
La memoria di questo mondo di umiliazione e di lotta, di lutti e riscatto appartiene per intero alla cultura siciliana.
In quegli anni la Sicilia, come tutto il Meridione, fece un notevole balzo in avanti, ma il reddito pro capite continuò ad essere molto basso e a risollevare le sorti dell'economia non servì la politica dei lavori pubblici dello Stato. I Siciliani non seppero o non vollero sfruttare lo strumento rivoluzionario, l'Autonomia, che avevano a disposizione per studiare da vicino e risolvere gli annosi problemi. Molti isolani ripresero la via dell'emigrazione, trasferendosi nelle regioni settentrionali e altri ricominciarono ad accarezzare il “sogno americano”.
Fara Misuraca

Alfonso Grasso
Febbraio 2012

Fonti bibliografiche

Note
[1] Nella storia della filosofia, Il XVII secolo può essere definito come il "rinascimento scientifico" grazie a personalità come Galileo Galilei, Renè Descartes e da Francis Bacon. Galileo indicò come elementi fondamentali del metodo scientifico due procedimenti: "sensate esperienze" ( osservazioni ed esperimenti) e  "necessarie dimostrazioni" ( dimostrazioni geometriche e matematiche). Galileo, come purtroppo noto non ebbe vita facile e fu processato dalla Santa Inquisizione per le sue idee.  La filosofia della scienza però continuò a svilupparsi in Paesi meno aggrediti dall’integralismo cattolico, come la Francia, o del tutto liberi dalla influenza papale, quale per l’appunto l’Inghilterra. Al filosofo francese Cartesio si deve il “metodo” , cioè la definizione dei procedimenti della conoscenza razionale e della spiegazione dei fenomeni naturali (metodo dell'evidenza,  metodo dell'analisi, metodo della sintesi, metodo dell'enumerazione). L’inglese Francis Bacon sviluppò i primi studi sistematici sull'applicazione del metodo induttivo nella ricerca scientifica. L'induzione è il metodo con il quale si possono scoprire principi generali, partendo dall'osservazione e dal confronto di molti fenomeni naturali e sperimentazioni di laboratorio. Seguirono gli approfondimenti di Isaac Newton, con il suo fondamentale trattato di fisica e meccanica, “Principi matematici della filosofia naturale” (1687). Gli studi di filosofia della scienza ebbero ampio sviluppo nel Settecento, detto “secolo dei lumi”, che in Inghilterra videro protagonisti John Locke e David Hume. Nell'Ottocento, sempre in Inghilterra, vennero poi sviluppati nuovi studi originali sui metodi induttivi dal filosofo John Stuart Mill.
John Locke
Accanto al progresso del pensiero filosofico, nella seconda metà del XVIII secolo si assiste in Inghilterra alla costruzione di strade e canali che forniscono un contributo determinante allo sviluppo degli scambi commerciali e per la formazione del mercato interno. Fra il 1760 e il 1774, il Parlamento inglese, anche per motivi militari (favorire il rapido spostamento delle truppe in ogni stagione dell'anno), emana una serie di atti legislativi per migliorare le strade esistenti e per costruirne di nuove attraverso il sistema del pedaggio che incoraggiò l'iniziativa privata. Neanche la perdita delle colonie americane, costituitesi negli Stati Uniti d’America, frenò lo sviluppo industriale britannico che, anzi, trovò nuovi sbocchi. Trascorso il periodo napoleonico, gli USA si avvicinarono sempre più economicamente e politicamente alla vecchia madrepatria, anche grazie ai capitalisti e banchieri si mantennero alleati. Ricordiamo a tale proposito che, specialmente tra i banchieri, vi erano molti ebrei, altrove (Paesi cattolici) reietti e perseguitati, che nel mondo anglo-sassone erano riusciti a far fortuna.
Francis Bacon
[2] Trade unions (Sindacati operai inglesi). L'origine può essere indicata nelle società di mutuo soccorso (friendly o benefit societies), ammesse per legge nel 1793. Il divieto di associazione sindacale, ribadito dalle Combination Laws del 1799-1800, fu abolito nel 1824-1825, ma il riconoscimento legale venne solo nel 1871. Le prime organizzazioni, locali e ristrette agli operai più qualificati dei singoli mestieri, cercavano di ottenere un controllo sull'offerta di lavoro attraverso la limitazione dell'apprendistato e l'obbligo ai datori di lavoro di assumere i soli organizzati (closed shop). Con la fine dell'agitazione cartista (1848), si accentuò il carattere prevalentemente economico-rivendicativo e non politico del sindacalismo inglese. Si operò il rafforzamento organizzativo delle principali unioni (sindacati) di settore (sull'esempio dell'Amalgamated Societies of Engineers, 1851), coordinate nel Trade Union Congress (Tuc) dal 1868. Lo sciopero dei portuali londinesi del 1889 segnò la nascita del “nuovo unionismo”, che iniziò a organizzare anche i lavoratori meno qualificati. L'esigenza di riforme e di sostegno all'azione sindacale spinse, al volgere del secolo, alla costituzione del Labour Party (Partito laburista), che mantenne una linea politica gradualista e riformista. L'ampia autonomia delle singole unioni, la debole autorità degli organismi di coordinamento, la scarsa permeabilità alle idee socialiste di palingenesi sociale, furono i caratteri peculiari del movimento sindacale inglese. (http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/t/t069.htm)
[3] Il carbonato di sodio (o carbonato sodico) è un sale di sodio dell'acido carbonico. A differenza di quest'ultimo, nel carbonato entrambi gli ioni idrogeno dell'acido sono stati sostituiti da ioni sodio. Il carbonato di sodio è stato chiamato a lungo soda, ma non è da confondere con la soda caustica. Questa precisazione è resa necessaria in quanto oggi con il termine soda si intende l'idrossido di sodio (la soda caustica).
Il chimico Nicolas Leblanc nel 1792 sviluppò il primo processo sintetico per la produzione di soda, ma da fine '800 alla seconda metà del XX secolo, il 91% della produzione industriale del carbonato di sodio avvenne tramite il processo messo a punto nel 1861 dal chimico belga Ernest Solvay - da cui il nome soda Solvay - che converte il cloruro di sodio in carbonato di sodio usando carbonato di calcio e ammoniaca.
A temperatura ambiente si presenta come una polvere cristallina bianca. Per riscaldamento tende a decomporsi liberando biossido di carbonio (calcinazione) gassoso. Sciolto in acqua, produce una soluzione basica; una soluzione di 50 g in un litro di acqua a 25 °C ha pH 11,5.
Trova impiego nella fabbricazione di vari tipi di vetro - bottiglie, bicchieri, vetro piano per l’edilizia, l’arredamento e l’auto - nell'industria della carta e nella produzione di detergenti. In chimica, è un moderato reagente alcalinizzante. (http://it.wikipedia.org/)
[4] Nel 1775 l'Accademia delle Scienze di Parigi aveva offerto un ingente premio in danaro per chi fosse riuscito a ottenere la soda dal sale marino. Nicolas Leblanc (1742-1806) riuscì a realizzare un processo in due stadi. Nel primo il sale era convertito in solfato di sodio con l’aggiunta di acido solforico, nel secondo il solfato era mescolato con carbone e carbonato di calcio, e per riscaldamento si otteneva la soda e solfuro di calcio. La soda veniva lisciviata e rimaneva una fanghiglia contenente carbone incombusto, soda non lisciviata e solfuro di calcio, facilmente decomponibile con esalazioni di idrogeno solforato. In questa versione primordiale due componenti essenziali andavano completamente perduti: il cloro del sale che si disperdeva nell'aria sotto forma di cloruro di idrogeno e lo zolfo dell'acido solforico che rimaneva “bloccato” in un “caput mortuum” di odore pestilenziale. Leblanc, travolto dalle vicende della Rivoluzione francese, non ebbe la possibilità di vedere applicato il suo procedimento e morì suicida nel 1806. Non così la sua invenzione che fu ripresa e perfezionata da Charles Tennant (1768-1838) e da James Muspratt (1793-1886).
Il sistema tecnico della soda Leblanc rimase sostanzialmente invariato fino al 1863, quando per una singolare coincidenza esso si trovò sottoposto a una duplice fortissima pressione, economica e politica. La prima veniva dalla proposta di un processo alternativo da parte del belga Ernest Solvay (1838-1922), la seconda era costituita dall'inedita legge anti-inquinamento inglese, l'Alkali Act (http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'industria_chimica)
[5] Furono molti gli imprenditori che arrivavano nell’800 dal Nord, attratti dai grandi guadagni delle miniere. Attorno al 1882 arrivarono anche i tecnici francesi, soprattutto a Riesi. Dove giunse Federico Hoefer fondatore della Chiesa Valdese. Quasi un’intera famiglia di tecnici inglesi arrivarono a Caltanissetta, Foster, Louis Chambon, Alped Skidmose, Ernest Santelli. Nel 1881 giunse a Riesi l’ingegnere Emilio Bancilhon, inviato dalla Compagnie des mines de Siufre, società che aveva sede a Parigi. Sposato con una donna del luogo la sua famiglia si stabilì per sempre in quella zona.
Tra gli arrivi degli stranieri, quello del nipote dell’imperatore d’Etiopia è certamente l’episodio che al di là del colore, sta a dimostrare come la scuola mineraria di Caltanissetta fosse tenuta in gran conto. Il giovane Brhanè Sillassiè Ybssa studiò a Caltanissetta dal 1929 al 1932 (Michele Curcuruto “I signori dello Zolfo” www.cameracommercio.cl.it)
[6] Canone di affitto. Veniva corrisposto in natura, con una parte dello zolfo ottenuto dalla fusione, chiamato estaglio, e che corrispondeva mediamente al 25% della produzione totale.
[7]. Il truck system consisteva nel pagamento di una parte del salario in generi alimentari da ritirare nello spaccio attiguo alle miniere ad un prezzo stabilito dal gestore e spesso maggiorato rispetto all’esterno.
Robert Fulton, progetto di sommergibile, 1798
[8] Il sistema si basa sul concetto che il calore prodotto dalla fusione dello zolfo può essere utilizzato per la preparazione del materiale da fondere successivamente. L’impianto era basato su due o più celle in muratura di forma troncoconica, adiacenti e comunicanti. Le costruzioni erano sormontate da una calotta nel cui centro s'apriva un foro circolare per la carica del minerale. Il suolo delle camere inclinato, costituito da “ginisi”, e la “morte” erano simili a quelle dei calcaroni. In alto le due celle comunicavano fra loro con un condotto orizzontale, nel mezzo del quale era collegata una tavola a saracinesca che serviva a chiudere la comunicazione tra le due celle, che a loro volta comunicavano con una canna fumaria.
Il forno veniva acceso, dopo aver messo in comunicazione le due celle e chiuso le “morti” con muretti di gesso, con il sistema delle fascine imbevute di zolfo.
Nel forno, acceso i prodotti di combustione della prima cella detta “motrice” erano sufficienti a far separare il minerale dalla ganga che era posta nella seconda. La temperatura raggiungeva più di 200 gradi. Per rendere il procedimento più redditizio e usare al meglio i fumi prodotti, alle due celle base se ne collegavano delle altre. Con questo tipo di forno venne messo a punto un sistema che permetteva di rendere programmabile la produzione, che determina dei ritmi e dei tempi precisi e che si basa su un elementare principio di risparmio energetico. La diffusione dei forni Gill, sarà comunque inferiore a quella del calcarone.
[9] Il lavoro femminile era utilizzato esclusivamente per la insaccatura e per l’immagazzinamento, sfruttando la capacità delle donne meridionali di portare pesi sulla testa in maniera più efficiente che gli uomini.
[10] I terribili e frequenti incidenti nelle zolfare hanno ispirato poeti e scrittori: uno di questi, avvenuto nel 1951 nelle miniere del bacino di Lercara, venne documentato dallo scrittore Carlo Levi nel libro Le parole sono pietre: “il 18 giugno, un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice, un “caruso” che lavorava nella miniera, venne schiacciato da un masso caduto dalla volta di una galleria, e morì. È un fatto frequente: anche il padre del morto aveva avuto una gamba schiacciata da una frana nella zolfara. Alla busta-paga del morto venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata; e ai cinquecento minatori venne tolta un'ora di paga, quella in cui avevano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce. Il senso antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero cominciò.” (Carlo Levi, Le parole sono pietre)

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1 commento:

  1. Contrariamente a quanto qui affermato, fu l'imprenditore francese Taix a proporre al governo di Napoli l'accordo del quale si parla, accordo che fu approvato da Ferdinando II malgrado la decisa opposizione di parte del governo, tanto che lo si concluse senza passare per il consiglio dei ministri.
    Non voglio occupare spazio, sorvolo quindi sulle altre inesattezze contenute nell'articolo.

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