L’oro del diavolo, lo
Zolfo
Ovvero l'oro nero del Regno di Sicilia citeriore
ovvero il motivo principale per il quale James Mayer de Rothschild e Kalman Mayer Rothschild (con lo zampino della perfida Albione) obbligarono il fetido regno dei Savoia a compiere una missione umanitaria di pace in questo floridissimo ed evoluto paese italiano, compiere massacri indiscriminati ed impadronirsi di uno stato sovrano pacifico
di Fara Misuraca e Alfonso
Grasso
Renato Guttuso, Zolfare di Sicilia
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Nei millenni l’uomo ha imparato a utilizzare sempre più
razionalmente le risorse agricole e minerarie che gli offriva la
terra ma è solo nel Settecento, dopo l’invenzione della macchina a
vapore, che il processo di sfruttamento intensivo delle risorse
della terra iniziato in Inghilterra diede vita a quel fenomeno che
chiamiamo rivoluzione industriale e dobbiamo aspettare i primi
dell’Ottocento, con la nascita della chimica moderna si assiste ad
un secondo e decisivo impulso alla industrializzazione della società
occidentale.
Già a metà Ottocento la rivoluzione industriale interessava in modo
significativo alcune aree dell’Europa del Nord (Francia del
Nord-Est, Belgio, Olanda, Germania), fra queste non c’era l’Italia,
né quella del Sud né quella del Nord.
Fu l’industrializzazione a far crescere in maniera esponenziale,
impensabile in precedenza, la capacità di produrre beni e reddito,
permettendo per la prima volta nella storia a milioni e milioni di
persone di raggiungere livelli di benessere che sino ad allora,
anche nelle società più opulente, erano stati riservati solo a
gruppi molto ristretti di individui.
Fu anche l’industrializzazione a determinare differenze tra società
industrializzate e società non industrializzate che risultarono
abissali rispetto a quelle esistenti tra paesi ricchi e paesi poveri
dell’epoca preindustriale.
Invenzioni, industrie e finanza
La rivoluzione industriale poggiò sulle solide basi delle scoperte
scientifiche e tecnologiche effettuate nel corso del XVIII e XIX
sec. L’applicazione nel settore tessile, nella metallurgia e nei
trasporti della macchina a vapore perfezionata nel 1769 da James
Watt contribuì al progresso della Gran Bretagna in maniera
determinante. Tra il 1830 e il 1847 il numero delle macchine a
vapore crebbe costantemente nell'Europa industrializzata. In Gran
Bretagna passarono da 15 a 30 mila e in Francia da 3 a 5 mila.
Le nuove tecnologie consentirono la diffusione e l’uso di macchine
agricole quali aratri, seminatrici e trebbiatrici meccaniche che
consentirono l’introduzione di nuove tecniche di coltivazione e di
allevamento. Tutto ciò portò a un deciso aumento della redditività,
con conseguente accumulo di capitale che, tramite le banche, furono
messi a disposizione dell'industria. Questo circolo virtuoso si
innescò solo nei paesi tecnologicamente più progrediti ed ebbe come
protagonisti esclusivamente i grandi proprietari. I piccoli
proprietari e il mondo agricolo delle regioni prevalentemente rurali
come Spagna, Italia, Polonia o Russia, restarono ancorati al passato
mantenendo metodi produttivi arretrati.
Questa serie di circostanze favorevoli, l’incremento
dell'agricoltura e dei commerci, lo sviluppo della tecnologia e la
conseguente espansione demografica, stanno alla base del processo di
modernizzazione dell’umanità. Fioriscono così l’industria estrattiva
del carbone, la siderurgia, la chimica e si diffonde un nuovo
sistema economico, il capitalismo, basato sulla proprietà privata
dei mezzi di produzione e dei capitali, si sviluppa il sistema
bancario, nascono Le Borse.
La diffusione delle macchine a vapore causò l’intensificarsi dello
sfruttamento delle miniere di carbone e i paesi come l'Inghilterra,
la Francia, la Germania e il Belgio, che ne erano ricchi, furono
avvantaggiati. Iniziò a svilupparsi la siderurgia, necessaria a
fornire i metalli necessari alla costruzione delle macchine,
nacquero gli altiforni per l'acciaio e la ghisa in Inghilterra e in
Germania e parallelamente grazie al notevole impulso dato alla
ricerca chimica sorsero come funghi industrie per la produzione di
concimi, colori artificiali, zucchero, per la vulcanizzazione del
caucciù.
Fondamentale per le industrie fu il supporto fornito da nuove ed
efficaci reti di trasporto, sia per terra che per mare. Mettendo a
frutto l'invenzione del treno, nella quale ebbero una parte decisiva
gli inglesi George e Robert Stephenson, all'inizio del secolo
vennero costruite le prime ferrovie, che nel 1850 si estendevano per
38 mila chilometri. Di questi 14 mila erano negli USA e 11 mila in
Gran Bretagna. E fin dal 1807, da quando fu varato il vaporetto
Clermont, grazie all’ingegno dell’americano Robert Fulton, iniziò a
diffondersi la navigazione a vapore che fu immediatamente agevolata
dall’invenzione del telegrafo, uno strumento per comunicare a
distanza, perfezionato anch’esso dallo statunitense Samuel Morse nel
1844.
L'allargamento della produzione industriale richiedeva una solida
organizzazione finanziaria. Le banche seppero subito adeguarsi
capendo che il loro ruolo era, principalmente, garantire alle
imprese la possibilità di ottenere capitali in prestito. Accanto
alle banche pubbliche, si svilupparono quelle private capitanate da
vere e proprie dinastie come i Rotschild, i Parish, i Baring
[1].
Le stesse imprese, crescendo, furono costrette a darsi un assetto
più solido, nacquero così le Società per Azioni, in cui più
capitalisti si legavano tra loro contribuendo con il proprio danaro.
Per provvedere alla compravendita delle azioni, al cambio di valuta
e al collocamento dei prestiti pubblici furono fondate le Borse.
Londra e Parigi erano le più importanti.
Il nuovo sistema capitalistico mise le imprese di fronte alla realtà
della concorrenza. Era necessario riuscire a produrre manufatti di
qualità al prezzo minore possibile per assicurarsi la supremazia sul
mercato.
Tutto ciò determinò un profondo mutamento sociale con la nascita
della borghesia capitalista, detentrice dei mezzi di produzione e
del proletariato, la cui unica ricchezza era la forza-lavoro.
Gli operai lavoravano in condizioni tristissime nelle fabbriche. Per
mitigare tale condizione in Francia nacquero le Società di mutuo
soccorso e in Inghilterra le friendly o benefit societies
e successivamente i lavoratori inglesi cominciano a riunirsi nelle
Trade Unions, legalizzate nel 1871
[2]. La loro lotta in difesa degli operai fu molto
difficile. Solo una piccola parte della borghesia era favorevole
alle loro richieste. È solo del 1831 la prima legge a tutela dei
bambini in Inghilterra, in Francia ne viene emanata una solo nel
1841.
In questo enorme fervore che ribolliva in tutta Europa e che si
espandeva sempre più, un ruolo non di secondo piano avrebbe potuto
giocarlo la Sicilia perché tra i minerali che stavano alla base
dello sviluppo industriale si inserì prepotentemente lo Zolfo di cui
l’isola era particolarmente ricca.
Lo zolfo è un elemento non metallico, ampiamente distribuito sulla
superficie della terra. E 'insapore, inodore, insolubile in acqua, e
si trova spesso in cristalli di colore giallo o in masse.
Il termine zolfo deriva etimologicamente dal latino sulfur,
“Pietra che brucia”, ed è stato usato quasi intercambiabile con il
termine per il fuoco. La traduzione inglese si riferisce allo zolfo
come “brimstone”, pietra dell'orlo, perché si trova
facilmente sul bordo dei crateri di vulcani.
Il termine siciliano “surfaru” deriva quasi certamente
dall'arabo sufra, che vuol dire giallo.
A causa della sua combustibilità, lo zolfo è stato utilizzato per
vari scopi almeno da 4.000 anni a questa parte: come fumigante,
agente sbiancante e come incenso nei riti religiosi.
Omero menziona lo zolfo, usato come agente purificatore dopo la
strage dei Proci, nell’Odissea nel IX secolo a.C., viene citato nel
Genesi, e Plinio (23-27 d.C.) ha riferito che lo zolfo era un
“singolare tipo di terra” con grande potere su altre sostanze, ricco
di “virtù medicinali”.
I Romani usavano zolfo, o fumi causati dalla sua combustione, come
insetticida e per purificare l’aria delle stanze dei malati,
analogamente a quanto riporta Omero nell'Odissea.
Sia i Greci ed i Romani inoltre utilizzarono lo zolfo per produrre
fuoco e giochi pirotecnici usati durante le rappresentazioni al
Circo o nei teatri. Inoltre, miscelandolo con catrame, resina,
bitume e altri combustibili riuscirono a produrre armi incendiarie
che usarono nelle loro battaglie e nei lunghi assedi, ma queste
conoscenze scomparvero in occidente con il declino dell'impero
romano. Rimasero tuttavia in uso nell’impero romano d’oriente tanto
che i Crociati, di ritorno dalla Terra Santa, portarono con loro la
conoscenza della polvere da sparo, che era stato nel frattempo
perfezionata dai cinesi e che consiste in una miscela di nitrato di
potassio (KNO3), carbonio e, appunto, zolfo.
Acquisita la conoscenza della polvere da sparo, e compreso l’uso
bellico dirompente che se ne poteva fare, in Europa l'uso della
polvere da sparo cominciò a diventare significativo a partire dal XV
secolo, gettando le basi per la fine della guerra di cavalleria.
L'uso delle armi da fuoco personali fu un crescendo fino a metà del
XIX secolo, raggiungendo l’apice con le Guerre napoleoniche, tra il
1792 ed il 1815.
Ma il grande impulso all’uso industriale “civile” dello zolfo
coincise con la nascita della chimica moderna nel 1700 e il
riconoscimento dell’acido solforico come uno degli acidi minerali
più importanti e versatile.
Anche se è abbondante su scala mondiale, lo zolfo nativo si trova di
solito in quantità relativamente piccole. La maggior quantità di
zolfo presente in natura è combinato con altri elementi, in
particolare i solfuri di rame, ferro, piombo e zinco, e i solfati di
bario, calcio (comunemente conosciuto come gesso), magnesio e sodio.
Le prime civiltà non avevano avuto bisogno di molto zolfo e il loro
fabbisogno era stato facilmente soddisfatto dai depositi di zolfo
nativo superficiale vicini a vulcani attivi e spenti.
Lo zolfo usato da civiltà pre-romane era probabilmente ottenuto per
riscaldamento di pirite di ferro o rame. Indagini archeologiche
hanno rivelato che già i romani, che iniziarono a farne un uso più
diffuso, ricavavano lo zolfo anche dalle miniere a cielo aperto
etrusche e dalle miniere siciliane come documentato da Plinio.
Lo sfruttamento industriale e intensivo dello zolfo ebbe inizio nel
1736 quando si scoprì che da esso poteva ricavarsi l’acido solforico
che, oltre ad essere un ottimo solvente, è anche un potente
ossidante in grado di attaccare i metalli con formazione del solfato
corrispondente e sviluppo d’idrogeno. Concentrato a caldo attacca
anche alcuni metalli nobili e carbonizza la maggior parte delle
sostanze organiche.
Altro anno importante fu il 1787, con la scoperta e la successiva
fabbricazione della soda artificiale
[3] con il
metodo LeBlanc, trattando con acido solforico il comune sale da
cucina
[4].
Sin dai primi anni dell’Ottocento furono scoperti tantissime
applicazioni industriali dell'acido solforico e della soda e, in
conseguenza di ciò, si moltiplicarono in tutta l'Europa gli
stabilimenti industriali per la loro preparazione. Ciò fece
aumentare, ulteriormente, la richiesta di zolfo di cui la Sicilia
era enormemente ricca.
Assieme all’uso industriale, a partire dal 1845, aumentò la
richiesta dello zolfo per l’uso che s’iniziò a farne in agricoltura,
soprattutto in polvere, per combattere l’oidio della vite e degli
alberi da frutto. Oltre naturalmente all’utilizzo nell'industria
bellica, per la preparazione della polvere nera, un potente
esplosivo impiegato anche nelle miniere.
Queste importantissime scoperte ebbero come conseguenza la necessità
di incrementare le industrie estrattive e la nascita delle prime
miniere.
Dalla fine del 1700 alla fine del 1800, il 95% del fabbisogno di
produzione del mondo è stato fornito dai depositi di zolfo
siciliano, ma le pratiche monopolistiche e l’alto costo alla fine
dirottarono i consumatori industriali verso altri paesi fornitori.
Lo Zolfo in Sicilia
Gli ultimi due secoli della storia sociale ed economica della
Sicilia sono stati segnati, in maniera determinante, dall’attività
estrattiva dello zolfo.
La scoperta dello zolfo in Sicilia risale ad epoche remote. Si può
affermare con certezza che lo sfruttamento economico abbia avuto
inizio tra 1580 e il1600. A quell’epoca, le borgate vicine alle aree
interessate dal fenomeno “zolfo”, nel giro di pochissimo tempo, si
trasformarono in veri e propri paesi, a causa dell’arrivo di persone
interessate al lavoro, ma è a partire dal ‘700 che comincia a
configurarsi l’attività produttiva connessa all’estrazione dello
zolfo. In questo periodo il minerale viene utilizzato essenzialmente
per la fabbricazione della polvere pirica e per la preparazione
degli zolfanelli.
L’industria solfifera siciliana nacque e si sviluppò in diretto
collegamento con la moderna industria chimica europea, che
incrementò notevolmente la domanda di zolfo, tanto che, all’inizio
del XIX secolo, da una richiesta di poche migliaia di tonnellate si
passò a milioni di tonnellate nel giro di pochi decenni per
l’estendersi dell’uso dell’acido solforico e del consumo di polvere
pirica. L’industria chimica europea, quella americana e quella
giapponese, in questo periodo storico, dipesero quasi esclusivamente
dallo zolfo siciliano. L’abate Francesco Ferrara, nel 1882, scriveva
che “le miniere di zolfo sono così abbondanti che si dice
trovarsene una in ogni sito nel quale si discola…”
Fino al 1904 la Sicilia ebbe il monopolio naturale dello zolfo,
contribuendo alla produzione mondiale per il 91%.
Nel 1906 però vennero scoperti grossi giacimenti di zolfo, in
Luisiana e nel Texas, negli Stati Uniti, e per l’estrazione fu messo
a punto un nuovo metodo di fusione, denominato Frasch, dal nome del
chimico tedesco Hermann Frasch, con il quale il minerale veniva
estratto attraverso la perforazione del suolo e contemporaneamente
fuso per mezzo del vapore, con una purezza del 99,5%. La facilità
d’estrazione e il grado di purezza misero in concorrenza lo zolfo
“americano”, togliendo alla Sicilia il monopolio da sempre detenuto
e facendo scivolare il settore in una crisi che, di fatto, fu
irreversibile.
Gli anni d’oro
A partire dal 1808-10 l’estrazione dello zolfo ebbe uno sviluppo
vertiginoso. Tuttavia sia l’estrazione del minerale sia la sua
commercializzazione erano integralmente nelle mani di capitalisti
inglesi che non avevano ritenuto mai conveniente realizzare la
trasformazione del minerale in Sicilia creandovi un’industria
chimica e tutto ciò che noi oggi chiamiamo “indotto”.
Nel 1834 un censimento stimava oltre 200 miniere in attività il cui
prodotto veniva spedito via mare in tutta Europa e negli Stati Uniti
d'America.
Nella seconda metà dell’Ottocento, durante il regno di Ferdinando II,
la Sicilia ebbe il monopolio della produzione mondiale di zolfo, ma
non riuscì a creare una società industriale che ruotasse attorno a
questo tesoro.
I guadagni che dettero le miniere furono notevoli e sua Maestà,
Ferdinando II di Borbone che in un primo tempo aveva stabilito che i
proprietari delle zolfare dovessero versare al fisco la decima parte
dello zolfo estratto dalle miniere, in seguito, ritenendo che tale
imposizione potesse rappresentare un ostacolo al progresso
dell’industria e del commercio istituì un diritto fisso, pari a
dieci once, detto “Diritto di apertura” che era
pagato, dai proprietari delle miniere una sola volta, al tribunale
del patrimonio, per ottenere il permesso d’apertura delle zolfare.
Nonostante il primato di
produzione lo zolfo fu anche il segno tangibile della nostra
subalternità ai mercati esteri sia per le modalità di produzione che
del commercio
[5].
L’apertura delle miniere, avviata nel 1808, al tempo
dell’occupazione inglese durante le guerre napoleoniche, fece vivere
alla Sicilia una sua particolare rivoluzione industriale che
cresceva al crescere dell’industria inglese e francese.
In Sicilia l’attività mineraria fu tuttavia caratterizzata da uno
sfruttamento della manodopera a dir poco selvaggio. Gli operai
lavoravano in condizione disumane. Eppure furono tantissimi i
braccianti che preferirono lasciare i campi per lavorare nelle
miniere. Questo ci fa capire quanto drammatiche fossero le
condizioni dei lavoratori della terra. In miniera avevano per lo
meno la certezza del pane quotidiano. L’esodo dall’agricoltura fu
significativo e influì non poco nella diminuzione della produzione
cerealicola dei latifondi.
Nonostante si fosse venuto a creare un “proletariato industriale”
enorme per quei tempi (le prime statistiche, risalenti al 1860,
registrano la presenza nelle miniere di un’occupazione operaia di
circa 16.000 unità) le connotazioni dello “sfruttamento” delle
zolfare era di tipo prettamente coloniale. Tutto il prodotto era
destinato all’estero allo stato grezzo e la commercializzazione era
prevalentemente in mano ad operatori stranieri, per lo più inglesi
che si occupavano anche dell’aspetto creditizio assicurando il
pagamento anticipato sulle consegne. Il sistema però accontentava
tutti e cioè i proprietari delle miniere, che erano i grandi
proprietari terrieri, i gabelloti, a cui era affidato lo
“sfruttamento”, cioè la gestione dei singoli giacimenti, e gli
operatori commerciali che agivano sul mercato estero.
Da questa situazione scaturiva
una cultura di rapina e sfruttamento nei confronti degli operai.
I metodi di estrazione, per risparmiare, rimasero in uno stato quasi
primitivo, tipico delle industrie coloniali. Con il beneplacito, al
solito, dei baroni proprietari e soprattutto dei gabelloti che
preferivano il guadagno immediato all’investimento per il futuro.
Una tale corsa alla produzione a basso costo portò spesso a crisi di
sovrapproduzione e la situazione era diventata poco sostenibile per
uno Stato che aspirava a diventare moderno.
La guerra degli zolfi
Nessuno può negare quanto gli Inglesi siano stati molto attenti,
attivi e intraprendenti nel decidere le sorti dello zolfo siciliano
a loro vantaggio. Molti forestieri e pochissimi siciliani si sono
arricchiti con il nostro zolfo e quasi mai i proventi della vendita
sono stati reinvestiti nella nostra Terra. Nel 1836 la produzione
del minerale fu tanto elevata che l’offerta superò di molto la
domanda e la saturazione del mercato portò ad una grande crisi del
settore tanto che il governo borbonico, nel 1838, cercò di arginare
questo stato di cose offrendo un accordo vantaggioso alla società
francese Taix-Aycard & C.
I ministri di Ferdinando II offrirono ai francesi il monopolio del
commercio degli zolfi per dieci anni, l'acquisto di un quantitativo
di zolfo pari ai 2/3 di quello estratto dalle miniere siciliane
nell'anno precedente a quello della firma del contratto ma con un
limite massimo di produzione annua. In cambio la Taix-Aycard si
impegnava a fornire gratuitamente all'Amministrazione militare di
Agrigento lo zolfo ad essa necessario, a realizzare una moderna
raffineria di zolfo con due camere di sublimazione, un impianto
industriale per la produzione di acido solforico e soda solforata e
l’impegno di addestrare manodopera locale. Inoltre, i Francesi si
impegnavano a costruire, per tutto il periodo di validità del
contratto, venti miglia di strade carraie all’anno e di versare,
annualmente, al sovrano la somma di 400.000 ducati da utilizzare per
la realizzazione di opere di pubblica utilità.
Con la costituzione di questa Society, tra la Francia ed il
Regno delle Due Sicilie, si istituì, di fatto, il monopolio degli
zolfi in Europa. L’idea era di allentare la morsa del predominio
economico inglese e permettere lo sviluppo di un’industria chimica
siciliana.
Un tale accordo avrebbe dovuto essere accettato con grande
entusiasmo e invece si costituì un “cartello” tra gli inglesi, i
baroni siciliani proprietari delle miniere e i gabelloti che
osteggiarono fortemente il progetto. I proprietari e i gabelloti
videro nell’iniziativa del governo soltanto una diminuzione del loro
profitto individuale e non i vantaggi generali ed a lungo termine
per il Regno.
Nel contrasto con la Gran Bretagna il governo rimase isolato e finì
col trovarsi tra due fuochi. Da una parte gli inglesi che
minacciavano il ricorso alle armi, dall’altra i baroni siciliani e i
gabelloti.
La diplomazia borbonica cercò aiuto all’Austria e alla Francia e
fece anche delle pubbliche proteste contro gli Inglesi disponendo
l’embargo per le navi inglesi. Re Ferdinando si trasferì in Sicilia
per meglio gestire la questione ma non ebbe alcun aiuto sul piano
internazionale e l’appoggio locale non fu adeguato. Fin dagli anni
’30 dell’800 si era sviluppato, infatti, un vivace dibattito tra
protezionisti e liberisti, tra agraristi e industrialisti per lo
sviluppo economico ma continuava a mancare un qualsiasi spirito di
associazione che avrebbe consentito di aumentare non solo il
capitale in denaro ma anche in macchine, strumenti, materie grezze e
soprattutto in operai e dirigenti specializzati. Non dimentichiamo
infatti che le nostre università vantavano cattedre di teologia, di
filosofia, di economia, di lingue orientali, di astronomia ma
mancavano di cattedre di ingegneria e di qualsiasi materia inerente
la gestione dell’industria. Non si curava, in parole povere
quell’”arte” che oggi chiamiamo “gestione aziendale” né di preparare
operai qualificati.
Secondo Lord Lyndhurst, gli Inglesi in Sicilia perdevano mille
sterline al giorno, una somma notevole, per cui protestarono, prima
diplomaticamente e, nulla avendo ottenuto, ricorsero alla forza. La
flotta britannica, comandata dall'ammiraglio Stopford, assediò il
porto di Napoli, catturando alcune navi francesi.
A questo punto la Corte di Napoli, dato che la Francia si era impegnata a mediare nella questione, inviò a Parigi il Conte Ferdinando Lucchesi-Palli dei Principi di Campofranco e, a seguito dei colloqui diplomatici, fu redatto un “Conclusum”, a firma del Ministro Thiers, con il quale gli Inglesi restituirono le navi catturate e fu dichiarato che pur non essendo stato violato alcun trattato non era conforme al sistema di buona economia (sic!) quanto era stato praticato per il commercio dello zolfo. In conseguenza di ciò, con il decreto del 21 luglio 1840, fu impostato lo scioglimento della società e Ferdinando II fu praticamente costretto a revocare l’accordo con la Taix-Aycard. Al danno si aggiunse la beffa perché il governo dovette risarcire sia i francesi che gli inglesi.
Abbattuto il monopolio, l’industria estrattiva non registrò grosse
perdite in quanto la diminuzione del prezzo dello zolfo fu
compensata dalla diminuzione del salario degli operai ma a partire
dal 1845 si ebbe una ripresa del settore, in quanto lo zolfo
incominciò ad essere utilizzato anche in campo agricolo per
combattere l’oidio della vite e dei frutteti.
L’inizio della fine
In Sicilia, alla fine degli anni 80 dell’ottocento, erano sorte
delle organizzazioni di lavoratori chiamate “Fasci”, e proprio in
quel periodo, la Sicilia andava perdendo il ruolo di principale
esportatrice dello zolfo, con la concorrenza, sui principali mercati
europei, di quello americano.
Il 17 dicembre 1892 a Grotte i soci del circolo Savonarola fondarono
il “Fascio dei lavoratori” che, in breve tempo diventò il più
importante della provincia di Agrigento, e proprio a Grotte, il 12
ottobre 1893, si tenne il primo congresso dei minatori siciliani,
organizzato dai fasci di Grotte e Racalmuto, al quale parteciparono
i fasci di Aragona, Campofranco, e Casteltermini con più di mille
lavoratori ed anche i piccoli “gabelloti”, che si reputavano
sfruttati dai proprietari delle miniere, in quanto costoro esigevano
una quota di “estaglio”
[6] molto alta,
sul quantitativo estratto dalle minire, indipendentemente dalla
ricchezza o meno del bacino, o che la miniera si trovasse invasa
dalle acque e inagibile, cosa peraltro, molto frequente considerando
gli inadeguati sistemi di eduzione.
In conseguenza delle ricorrenti crisi nelle zolfare dovute,
soprattutto alla perdita dei mercati esteri, nel 1896, sotto la
direzione di Ignazio Florio, venne costituita una società con gli
inglesi la “The English Sicilian Sulphur Company”, che, per
dieci anni, sino al 1906 ebbe quasi il monopolio della produzione
dello zolfo siciliano. Alla società, però, aderì solamente il 60%
dei produttori.
Il massimo delle produzione si raggiunse nel 1899. Difatti dalle 733
zolfare in attività furono estratte 3.550.000 tonnellate di minerale
solfifero, con una produzione di zolfo fuso di 537.000 tonnellate,
pari agli 8/10 di quella mondiale, con l’impiego di 38.200 addetti.
Tale livello produttivo si mantenne invariato fino agli inizi del
Novecento e la Sicilia ebbe il monopolio naturale dello zolfo,
contribuendo alla produzione mondiale per il 91% sino a quando la
produzione americana incominciò a far sentire il suo peso
sull’economia del settore e portò a crisi ricorrenti e di entità
sempre maggiori che costrinse migliaia di operai rimasti senza
lavoro ad emigrare fino ad arrivare a una crisi irreversibile, che
ha determinato contestualmente la cessazione di ogni attività
lavorativa e l’abbandono di un patrimonio ingente, i cui “segni”
persistono ancora oggi, riconoscibili nelle strutture ormai obsolete
degli impianti dei bacini minerari.
Nel 1906 la società anglo-sicula, allo scadere del secondo
quinquennio di contratto, non raggiunse l’obbiettivo di limitare
l’estrazione degli zolfi e una notevole quantità di prodotto
invenduto cominciò ad accumularsi nei magazzini. Considerato
inoltre, che lo zolfo americano, incominciava ad essere importato
anche in Europa a prezzi molto concorrenziali, la società venne
sciolta e la crisi zolfifera divenne sempre più pesante. La gente
continuava ad emigrare.
Il Governo allora, con la legge n. 333 del 15 luglio 1906, istituì
il “Consorzio Obbligatorio per l’Industria Zolfifera Siciliana”
della durata di dodici anni, che poteva essere prorogata. Il
consorzio si occupò esclusivamente del commercio dello zolfo in
tutti i mercati e il ricavato delle vendite, detratte le spese,
ripartito ai produttori, proprietari od esercenti, in funzione delle
quantità di prodotto conferite.
La sede centrale di Palermo coordinava le agenzie presenti nei porti
di Catania, Licata, Porto Empedocle e Termini Imerese, dove veniva
ammassato lo zolfo dei consorziati, in attesa della vendita. Lo
zolfo veniva classificato secondo la qualità. Il prodotto migliore
era quello di color giallo, considerato di prima qualità. Seguiva
quella di seconda e terza, in funzione delle inclusioni presenti.
Agli esercenti veniva dato un anticipo in denaro e il saldo era
liquidato dopo la vendita.
Nel 1915, allo scoppio della I Guerra Mondiale, l’industria
zolfifera ebbe una buona ripresa grazie all’aumento della domanda
dello zolfo utilizzato ai fini bellici.
Nel 1919 venne istituito l’Ente Autonomo per il progresso Tecnico
ed Economico dell’Industria Zolfifera che si occupò della
elettrificazione delle zolfare.
Ma ormai non c’era più speranza alcuna di ripresa, il 1921 fu
considerato l’anno peggiore per l’industria zolfifera e le
esportazioni, a causa della pressante concorrenza americana, si
contrassero drasticamente.
Tra la prima e la seconda guerra mondiale, le piccole miniere a poco
a poco furono costrette a chiudere. L’attività di estrazione
continuò solo in quelle più grandi ed in quelle ammodernate.
Intanto il 29 luglio 1927 fu varata la legge n.1443 che prevedeva
l’abolizione della proprietà privata del sottosuolo: doveva essere
lo stato a darlo in concessione ai privati in possesso dei necessari
requisiti.
Nel 1932 il Consorzio zolfifero venne sciolto e nel mese di dicembre
dello stesso anno venne istituito l’Ente Nazionale dello Zolfo.
Per fronteggiare la concorrenza americana, nel 1933 fu costituito l’Italzolfi
con lo scopo di raggiungere degli accordi con gli Stati Uniti per la
vendita dello zolfo, limitare la produzione con delle quote fisse di
estrazione, garantire un prezzo minimo di vendita.
Nel 1940 l’Italzolfi fu sostituito dall’Ente Zolfi italiani
con lo scopo di ridurre gli estagli dei proprietari e rinnovare le
tecniche di estrazione per diminuire i costi di produzione.
Con lo scoppio della seconda guerra mondiale i minatori, come tutti
gli uomini abili, andarono a combattere e le zolfare, soprattutto
quelle più piccole, chiusero.
Nel dopoguerra, le miniere, che erano riuscite a resistere erano
ormai obsolete e scarsamente redditizie. Tra gli anni 50 e 60 del
novecento, a protezione del settore, si emanò una serie di
provvedimenti legislativi consistenti in interventi intesi a
sovvenzionare direttamente le imprese minerarie mantenendo, per il
Mercato nazionale, un prezzo politico superiore a quello
internazionale. Questo non fu più possibile dopo l'avvento della
Comunità Economica Europea. Però per motivi di ordine sociale e
mantenere un minimo di livello occupazionale si cercò di mantenere
in vita le ultime miniere rimaste, rimettendoci economicamente.
Le miniere ancora in attività nel 1964 furono rilevate dalla Regione
Siciliana ed affidate in gestione all’Ente Minerario Siciliano
(E.M.S), secondo un programma di assetto che portò al
chiusura di quelle eccessivamente marginali o in fase di esaurimento
di minerale, e fu favorito l'esodo volontario di circa duemila
addetti. Nel 1967 quelle ancora in attività passarono alla
Società Chimica Mineraria Siciliana, la SO.CHI.MI.SI.
Anche la gestione pubblica delle ultime miniere rimaste, però, non
riuscì ad arrestare la gravissima ed ormai irreversibile crisi che
aveva investito il settore zolfifero.
Nel 1970 erano attive solo dodici miniere dove erano occupati circa
tremilacinquecento lavoratori: Ciavolotta, Cozzodisi, Gibellini,
Lucia e Stretto Cuvello in provincia di Agrigento; Gessolungo, La
Grasta, Muculufa e Trabonella in provincia di Caltanissetta;
Floristella, Giumentaro e Zimbalio Giangagliano in provincia di
Enna.
Nel 1975 erano aperte solamente quattro miniere, anch'esse costrette
a chiudere dopo qualche anno.
Fu la L. R. n. 34/88 che sancì la chiusura definitiva di tutte le
miniere di zolfo siciliane, già poste in stato di potenziale
coltivazione, veniva effettuata, cioè, solamente la manutenzione
delle gallerie e l'eduzione delle acque.
Riassumendo, la gravissima crisi che ha travagliato il settore
zolfifero fu determinata dall'aumento dei costi di produzione
soprattutto a causa degli aumenti del costo del lavoro e del
progressivo impoverimento del materiale solfifero; dalla contrazione
del prezzo internazionale dello zolfo; dalla concorrenza americana
che usava metodi di estrazione del minerale d'avanguardia del tutto
diversi da quelli adottati nelle miniere siciliane: basti pensare
alle sonde Frasch e soprattutto allo zolfo ricavato come
sottoprodotto della raffinazione del petrolio. Con tali metodi si
ottenevano costi di produzione molto bassi, non influenzati dal
continuo aumento del costo del lavoro, al contrario della Sicilia
dove incideva per circa l'ottanta per cento sul totale del costo di
estrazione. Le produzioni a livello mondiale erano aumentate in
maniera notevolissima mentre, al contrario, quelle siciliane erano
diventate insignificanti.
La Miniera
Quella della zolfara è una storia di miseria, di sfruttamento, di
sofferenze, di morte, di abbrutimento, anche degli stessi
“gabelloti” che apparivano aguzzini agli occhi dei minatori. Ciò,
certamente non giustifica la loro condotta e la loro smania
arricchirsi. Ben rende questo clima Luigi Pirandello, che così
scrive nella novella Il Fumo: “Chi erano, infatti, per la maggior
parte i produttori di zolfo? Poveri diavoli, senza il becco d'un
quattrino, costretti a procacciarsi i mezzi, per coltivare la
zolfara presa in affitto dai mercanti di zolfo delle marine, che li
assoggettavano ad altre usure ed altre soperchierie. Tirati i conti,
che cosa restava, dunque, ai produttori? E come avrebbero potuto
dare, essi, un men tristo salario a quei disgraziati che faticavano
laggiù, esposti continuamente alla morte? Guerra, dunque, odio,
fame, miseria per tutti, per i produttori, per i picconieri, per
quei poveri ragazzi oppressi, schiacciati da un carico superiore
alle loro forze, su e giù per le gallerie e le scale della buca”.
La miniera secondo criteri scientifici, corrisponde all'intero
deposito minerario di una determinata zona, ma in Sicilia il termine
miniera si faceva corrispondere ai confini di proprietà del suolo.
Uno stesso giacimento pertanto poteva essere frazionato in numerose
concessioni, rendendone antieconomico lo sfruttamento. Dando in
gabella la miniera frazionata si contribuiva alla formazione di
elevati estagli, così si chiamava il canone di affitto,
causando un aumento del costo del minerale: il gabelloto aveva
pertanto interesse a sovra produrre e a sfruttare quanto più
possibile sia le miniere che la manodopera.
Nel 1890 erano attive in tutta la Sicilia circa 480 miniere e di
queste solo 52 erano “coltivate” direttamente dai proprietari in
genere appartenenti a famiglie aristocratiche o ad ordini religiosi,
tutte le altre erano concesse a gabella, la cui durata andava da
9-12 anni fino, talvolta, a 20 anni.
Il canone di affitto, come detto in precedenza, veniva corrisposto
in natura, con una parte dello zolfo ottenuto dalla fusione,
chiamato estaglio, e che corrispondeva mediamente al 25%
della produzione totale. La gabella mineraria era una sorta di
contratto di appalto che imponeva al gabellota sia il sistema di
coltivazione (generalmente quello a colonne, archi e pasture di cui
si stabilivano per ogni miniera numero, spessore e dimensioni dei
pilastri, delle volte e del suolo di lavorazione, come pure
l'inclinazione e la profondità delle scale delle gallerie) sia la
supervisione del proprietario o di un suo fiduciario.
Strutturalmente una miniera era costituita da una serie di gallerie
sotterranee, disposte su più livelli, che crescevano di numero man
mano che si procedeva all’estrazione del minerale.
La coltivazione delle miniere, per farle fruttare il più possibile,
non avveniva in modo razionale, infatti venivano spesso tralasciati
i lavori di tracciamento per una buona ventilazione e l'obbligo
contrattuale di procedere all'abbattimento delle sovrastrutture
induceva il gabelloto a non costruirle e a servirsi di strette
calature a forma di camini inclinati, le “discenderie”
provviste di gradini per il transito degli operai e il trasporto
all’esterno del materiale. L’areazione nelle miniere più primitive,
era data dalla sola apertura all’imbocco della galleria, per cui, la
ventilazione era difettosa e, spesso, si verificava l’accumulo di
gas asfissianti (acido carbonico chiamato “rinchiusu” dai
minatori) o di gas esplodenti (idrogeno solforato o “antimoniu”),
facilmente infiammabili per l’uso delle lumere e
successivamente delle lanterne ad acetilene (a citalena).
Scrive Leonardo Sciascia (Le
parrocchie di Regalpetra, Aldelphi, 1991)
“Pròvati, pròvati a scendere
per i dirupi di quelle scale, visita quegli immensi vuoti, quel
dedalei andirivieni, fangosi, esuberanti di pestifere esalazioni,
illuminati tetramente dalle fuligginose fiamme delle candele ad
olio: caldo afoso, opprimente, bestemmie, un rimbombare di colpi di
piccone, riprodotto dagli echi, dappertutto uomini nudi, stillanti
sudore, uomini che respirano affannosamente, giovani stanchi, che si
trascinano a stento per le lubriche scale, giovinetti, quasi
fanciulli, a cui più si converrebbero e giocattoli, e baci, e tenere
materne carezze, che prestano l’esile organismo all’ingrato lavoro
per accrescere poi il numero dei miseri deformi. E quando dalla
notte della zolfara i picconieri e i carusi ascendevano
all’incredibile giorno della domenica, le case nel sole o la pioggia
che batteva sui tetti, non potevano che rifiutarlo, cercare nel vino
un diverso modo di sprofondare nella notte, senza pensiero, senza
sentimento del mondo”.
Il personale delle miniere constava di un numero elevato e
diversificato di addetti in relazione al tipo di prestazione
esercitata. Era costituito da operai che lavoravano all’interno
della miniera, per la costruzione e manutenzione delle gallerie,
l’abbattimento ed il trasporto del minerale e da operai che
lavoravano all’esterno il materiale estratto e attendevano a tutte
le mansioni che richieste nel processo produttivo.
Lo scarso livello tecnico dei lavori di preparazione era spesso
causa di crolli che seppellivano intere squadre di operai.
Artefici principali nell’estrazione dello zolfo erano i picconatori,
i “pirriatura” o “picunieri”, cioè coloro che
individuavano il filone zolfifero e staccavano a picconate il
minerale dalle pareti di roccia. Il loro lavoro era duro e rischioso
per la elevata temperatura, la poca luce e ventilazione e per l'aria
sempre impregnata di gas e polvere. Tra il gabellota e il picconiere
il rapporto di lavoro era regolato da un contratto a cottimo: il
gabellota pagava un tanto per una certa quantità di zolfo estratto e
trasportato fino al piano della miniera. L'orario di lavoro era,
teoricamente, di circa otto ore al giorno e la retribuzione media
oscillava alla fine dell'Ottocento da 2 a 3 lire. Ovviamente
l'esercente metteva in atto tutte le forme più diffuse di
sfruttamento come la corresponsione irregolare o la pratica del
truck system
[7].
Compagni inseparabili e complemento dei “pirriatura” erano i
“carusi”, bambini di età tra i sette ed i quindici anni cui
era affidato il compito di trasportare a spalla, fuori dalla
miniera, il materiale zolfifero. I carusi erano legati al picconiere
da contratti orali di cottimo, con un compenso fisso per ogni cassa
di zolfo trasportata. Ogni picconiere disponeva da due a sei carusi.
Il picconiere “affittava” i carusi anticipando una somma di denaro,
detto soccorso morto, alle famiglie dei carusi.
Una volta trasportato all’esterno, i “carcarunara”
sistemavano il materiale zolfifero nei forni e gli “arditura”,
davano fuoco e controllavano la fusione e la colatura del liquido
nelle forme di legno, dove si sarebbe solidificato in “balate”.
La direzione dei lavori era affidata ai capomastri, di solito
ex picconieri, che avevano maturato esperienza attraverso il loro
lavoro.
Solo dopo il 1864, anno in cui si avvia la Scuola Mineraria di
Caltanissetta, le miniere più grandi furono dirette da periti e
capominatori ben preparati.
La fusione dello zolfo:
Calcarelle, Calcaroni, Forni Gill e impianti di Flottazione
Una volta portato in superficie lo zolfo doveva essere separato
dalla ganga. L'estrazione dello zolfo avveniva in speciali
forni detti “calcaroni” e in tempi più recenti in forni
“Gill” o per flottazione.
Il metodo più antico di fusione fu quello della “calcarella”,
una piccola fornace del diametro di circa due metri con un suolo a
piano inclinato necessario per fare confluire verso il foro di
uscita (la “morte”) lo zolfo liquido.
Il sistema di fusione delle Calcarelle fu usato fino alla
prima metà del 1800.
Questo forno arcaico veniva riempito fino all’orlo e, appiccato il
fuoco al cumulo, si attendeva la fusione. Il processo durava circa
6-7 ore lo zolfo cominciava a colare dalla “morte” dentro
appositi recipienti di legno, “gaviti” e, dopo il
raffreddamento ed il consolidamento, confezionato in forme
tronco-piramidali dette “balati”.
Questa tecnologia arcaica era fortemente inquinante per l'aria e per
i terreni circostanti, tanto che per molti decenni non fu possibile
coltivare i terreni in vicinanza delle calcarelle.
Anche la resa era modesta, poiché veniva bruciato e quindi perso,
circa il 60% del prodotto.
Durante un incendio, avvenuto nel 1842 in una miniera presso Favara
in Sicilia gli uomini, non disponendo di acqua, pensarono bene di
soffocare il fuoco coprendo il minerale con terra e pietre. Dopo
circa un mese da sotto quella massa cominciò a scorrere zolfo puro
di qualità superiore a quella che la miniera aveva sempre dato. Fu
così che, intorno alla metà del 1800, venne messo a punto il
“calcarone”, sistema di fusione sostanzialmente simile al
precedente, ma caratterizzato da una copertura sommitale che aveva
lo scopo di frenare e rendere meno viva la combustione e da una resa
superiore del prodotto, che colava in grana più fine e colorito
migliore. E soprattutto non si correva il rischio di perdere il
prodotto nel caso di avverse condizioni atmosferiche e la produzione
di anidride solforosa era più limitata.
Con questo sistema si ottenne un notevole
aumento della produzione e gli operai che si occupavano del
caricamento e quelli che curavano le fasi della fusione,
carcarunara e arditura, divennero figure determinanti per la
buona riuscita delle fusioni.
I carcarunara, lavoravano in squadre di 20-30 e avevano un
capo che stabiliva il contratto di cottimo, e si spostavano da una
miniera all'altra durante la stagione estiva. Gli arditura
controllavano tutte le fasi della fusione e della colatura dello
zolfo fuso nei gaviti da dove si estraevano i balati o
pani di zolfo solido che venivano spediti, tramite carri o ferrovia,
ai porti di imbarco. Questi operai erano meglio pagati poiché gli si
richiedeva notevole esperienza ed abilità nel controllo della
combustione.
In realtà l’ambiente delle zolfare era intriso di feudalità e la sua
economia era soggetta alle continue variazioni del mercato
internazionale. Inoltre molti erano i mercanti stranieri che
affittavano le miniere in Sicilia: a Lercara, ad esempio, c’erano
gli inglesi Gardner e Rose e il console svizzero Hirzel.
Furono proprio i mercanti inglesi, quegli stessi inglesi che si
opposero con la forza a che le miniere siciliane fossero
“modernizzate” dai mercanti francesi, ad adottare l'odiosa pratica
del “Truck system”, un sistema escogitato per ridurre i costi
di produzione a spese dei minatori.
Il metodo dei Calcaroni continuò, però, a produrre danni
all’ambiente ed alle colture circostanti.
Le proteste degli agricoltori e le denuncie delle amministrazioni
comunali contro i danni provocati dall’anidride solforosa furono
tali e tante che l’intendenza di Girgenti e Caltanissetta furono
costrette ad emanare una serie di regolamenti tra i quali si
prescriveva che questi impianti fossero installati ad una distanza
non inferiore a 3 chilometri dai centri abitati ma che, ovviamente,
non riuscirono ad eliminare il problema.
Molti furono i tentativi di trovare modi di fusione meno inquinanti
come il forno Durand o il forno Hirzel, che però
ebbero scarsi risultati, fu solo nel 1880 venne messo a punto
nelle miniere Gibellini e Ragalmuto
un nuovo tipo di forno, il Forno Gill, che prendeva il nome
del suo ideatore, l’ingegnere Robert Gill
[8].
Il forno Gill, come il calcarone, funzionava usando lo zolfo come
combustibile per la fusione dello zolfo stesso, ma aveva diversi
vantaggi: era riparato dall’azione degli agenti atmosferici, la
produzione poteva svolgersi tutto l’anno con qualsiasi tempo e la
perdita di zolfo era appena del 15-25%.
Solo verso la metà del XX secolo l’industria estrattiva dello zolfo
si avvalse degli impianti di flottazione.,
l'unica alternativa concreta ai vari sistemi di fusione sperimentati
ed utilizzati in prossimità delle miniere
Questo sistema, che entrò in uso solo nell’ultimo periodo delle
miniere, in quella fase ormai di dismissione dell'attività
estrattiva dello zolfo siciliano, consisteva nella separazione del
minerale dalla ganga con l'utilizzo di sostanze e procedure che ne
favoriscono il distacco. In pratica il materiale estratto veniva
finemente triturato e messo in sospensione, in apposite celle,
in un liquido (acqua e oli) a formare una miscela, la “torbida”.
Nelle celle di
flottazione la “torbida” veniva agitata meccanicamente fino
alla formazione di una schiuma, con la conseguente separazione dello
zolfo dalla ganga. L’impianto di flottazione consentì un recupero di
zolfo fino al 99,5%.
I più importanti progressi dell'industria solfifera si avranno verso
il 1870/80 quando saranno introdotti l'estrazione meccanica per i
pozzi verticali, l'eduzione delle acque per mezzo di motori a vapore
e agli inizi del XX secolo con l'applicazione dell'energia
elettrica.
Tuttavia le basi dell'industria
mineraria siciliana rimarranno sempre deboli e non consentiranno il
formarsi di una forte borghesia imprenditoriale; i gabelloti,
vessati da rapporti di produzione di tipo feudale e soggetti alle
brusche oscillazioni del mercato solfifero, spesso andavano incontro
al fallimento, come successe alla famiglia Pirandello, non
permettendo il costituirsi di una struttura imprenditoriale solida e
stabile.
Le condizioni dei lavoratori nelle zolfare siciliane
Un'inchiesta di Vittorio Savorini sulle condizioni economiche e
sociali dei lavoratori nelle miniere di zolfo nel girgentano, che
risale al periodo tra il 1870 e il 1880, ci dice che nelle 72
miniere prese in considerazione lavorano 69 capimastri, 110 tra
catastieri, pesatori e scrivani, 956 picconieri, 2626 carusi, 114
donne. La media dei salari giornalieri era : capimastri lire 3,
picconieri lire 2, donne 0,70 centesimi
[9], carusi da
7 a 15 anni centesimi 0,85 (ma alcune miniere pagavano anche 0,35
centesimi o lire 1,25 oltre gli undici anni d'età).
I carusi, bambini in gran parte dai 7 ai 12 anni, erano uno
strumento del picconatore alla stessa stregua del piccone e della
pala. Questi bambini schiavi venivano ceduti dalle famiglie
ai picconatori con un sistema detto «soccorso morto»,
consistente nell'anticipare al massimo cento o duecento lire alla
famiglia avendone in cambio l'uso del bambino per un certo numero di
anni.
Scrive Savorini:
È a causa di questo
preesistente debito che il caruso non riceverà altro che acconti e
quel che è peggio quasi sempre in natura, che sono tra gli zolfatai
chiamati “spesa”, e consistono in farina di grano, in olio e spesso
in solo pane. E questi generi, sempre di pessima qualità, sono poi
conteggiati a un prezzo superiore.
Dal lavoro in miniera, il
caruso resterà segnato per tutta la vita. Oltre a subire
innumerevoli abusi sessuali non denunziati e violenze d'ogni tipo,
lo schiavo caruso comincia a patire di malattie agli occhi, di
rachitismo, di deviazione della colonna vertebrale.
Riporto una tabella dal Savorini che riguarda la leva del 1875 nei
paesi di Grotte, Favara, Comitini, Aragona: Iscritti alle liste:
482; zolfatai 203; Abili 81; Inabili (tutti appartenenti al
distretto minerario): 6 per gracilità, 6 per deviazione della
colonna vertebrale, 52 per rachitismo. Gli altri, rivedibili.
Il lavoro dei fanciulli nelle zolfare siciliane
(tratto
dall’inchiesta “La Sicilia nel 1876” di L. Franchetti e S. Sonnino)
Nelle province di Girgenti e di Caltanissetta avvengono sotto i
nostri occhi, parecchie ingiustizie verso i minori che vengono
sfruttati nel lavoro delle miniere.
Le
miniere di zolfo in Sicilia variano moltissimo le une dalle altre
per il numero, la lunghezza e la profondità delle gallerie di
estrazione, a seconda delle grandi varietà di giacimento degli
strati del minerale, e anche dello sminuzzamento della proprietà del
suolo alla superficie. I metodi di estrazione dello zolfo sono
simili in quasi tutte le miniere, e il lavoro è uguale per tutti,
sia per grandi che per piccoli. Il lavoro è molto faticoso a causa
dell’inclinazione dei pozzi d’estrazione, solo alcune gallerie sono
a leggero declino.
Nonostante l’impiego della tecnologia moderna per l’estrazione dello
zolfo, il lavoro dei fanciulli si adopera per il trasporto dello
zolfo dalle gallerie di escavazione fino al punto dove corrisponde
il pozzo verticale o la galleria orizzontale. In Sicilia il lavoro
minorile nelle gallerie è più duro di quanto si possa immaginare,
perché il lavoro dei fanciulli consiste nel trasporto del minerale
sulla schiena, in sacchi o ceste: il materiale, dalla galleria dove
viene scavato dal picconiere, viene portato al calcarone (si chiama
la fornace in forma di conca che serve per fondere lo zolfo) per
essere lavorato.
Il lavoro dei picconieri consiste nel rompere la roccia, che
contiene zolfo, col piccone. Viene pagato per casse di minerali. Il
“partitante”, o capo operaio, delegato dall’amministrazione, dà ai
singoli picconieri lo stesso acconto che riceve lui sulle casse di
minerali, riservando per sé il guadagno della compartecipazione
dello zolfo fuso; o più spesso dà loro qualcosa di meno anche sul
prezzo delle casse. La maggior parte delle volte il partitante paga
a giornata calcolando questa in base ai tanti viaggi del ragazzo.
Lui ha il giudizio delle quantità e qualità del minerale, poiché
volta per volta esamina la cesta del ragazzo, e lo rimanda indietro
quando il contenuto non sia di sua soddisfazione: il ragazzo è
quello che ne busca.
I “carusi” sono quei poveri ragazzi che trasportano il minerale. La
maggior parte dei carusi ha tra gli 8 e gli 11 anni, ma alcuni
iniziano il loro lavoro a 7 anni. Ogni picconiere impiega in media
da 2 a 4 carusi. Questi ragazzi percorrono coi carichi di minerale
sulle spalle le strette gallerie scavate a scalini nel monte, con
pendenze talora ripidissime, e di cui l’angolo varia in media da 50
a 80 gradi. Gli scalini generalmente sono irregolari, più alti che
larghi, sui quali ci si posa appena il piede. Le gallerie in medie
sono alte 1.50 metri e larghe circa 1.10 metri, ma spesso anche
meno. Il lavoro dei fanciulli nelle gallerie va dalle otto alle
dieci ore al giorno e devono compiere durante queste un determinato
numero di viaggi, ossia trasportare un dato numero di carichi dalle
gallerie di escavazione dello zolfo, mentre i ragazzi impiegati
all’aria aperta lavorano dalle 11 alle 12 ore. Il carico varia a
seconda dell’età e la forza del ragazzo, ma è sempre superiore a
quanto possa portare una creatura di tenera età. I più piccoli
trasportano un peso dai 25 ai 30 Kg, e quelli dai 16 in poi dai 70
agli 80 Kg. In media ogni carusu compie 29 viaggi di andata e 29 di
ritorno. Il guadagno giornaliero di un ragazzo di otto anni sarà di
£ 0.50, dei più piccoli e deboli £ 0.35; i ragazzi più grandi, di
sedici e diciotto anni, guadagnano circa £ 1.50 e talvolta £ 2 e
2.50.
Accennati così sommariamente i fatti principali relativi al lavoro
attuale dei ragazzi nelle zolfatare, sorge spontanea la domanda: Vi
è modo di rimediare a tanto male, senza rovinare l’industria
mineraria in Sicilia ?
Noi accenneremo soltanto le opinioni che si udirono pronunziare
sulla questione da parecchi direttori ed amministratori di grandi
zolfare.
Da una parte un amministratore di una vastissima zolfara si
lamentava che il nuovo progetto di legge presentato al Parlamento,
il quale mira a regolare il lavoro dei fanciulli nelle miniere,
porterebbe infallibilmente alla rovina dell’industria dello zolfo.
Questi diceva che il lavoro dei fanciulli era sempre indispensabile
per portare il minerale dal luogo di escavazione al punto dove
sbocca il pozzo di estrazione o la ferrovia inclinata, quindi doveva
escogitare il modo per evitare la spesa per la costruzione di pozzi
di estrazione.
In ogni caso le famiglie dei fanciulli si opporrebbero a qualunque diminuzione delle ore di lavoro che porterebbero ad una diminuzione dei loro guadagni.
Lo stesso amministratore osava affermare che i fanciulli attualmente
non lavoravano mai più di 4 o 5 ore al giorno, e non sono impiegati
che dai 12 anni in su.
Chiunque avesse visto il lavoro nelle zolfare siciliane, avrebbe
potuto convincersi dell’insussistenza assoluta delle notizie fornite
intorno alle ore di lavoro e all’età dei ragazzi.
Un capo ingegnere di una delle maggiori zolfare della Sicilia
credeva che si poteva benissimo far a meno quasi del tutto del
lavoro dei ragazzi con un sistema bene ordinato di gallerie
inclinato, unite al pozzo di estrazione mediante alcune gallerie
orizzontali. Egli riteneva che il risparmio del salario dei ragazzi
avrebbe largamente compensato la maggiore spesa delle gallerie. Però
nel caso di deviazioni forti nella direzione dei filoni, o di altri
ostacoli, bisognava talvolta, per evitare la troppa spesa, fare
delle gallerie irregolari come le attuali; e per quei tratti,
conveniva sempre adoperare il lavoro dei ragazzi, che restavano
soltanto in via di eccezione, come accadeva nelle miniere di carbon
fossile. La nuova legge quindi non gli faceva nessuno spavento.
Se tali provvedimenti o altri simili non bastassero a togliere del
tutto il lavoro dei fanciulli nelle miniere, diminuirebbero però di
assai il numero necessario per l’andamento di una zolfara.
Riguardo a una legge tutelatrice dei fanciulli è non solo utile, ma indubbiamente necessaria e indispensabile, una legge che determinasse il minimo dell’età a cui si possano impiegare bambini nelle zolfare, regolando il lavoro dei minori. Purtroppo i genitori rovinano la salute fisica e morale delle loro creature per guadagnare di più, e nemmeno per campare, questo però non dovrebbe mai passare inosservato al legislatore.
Dopo questa lettura è bene ribadire un concetto, ancora agli inizi
della seconda metà del XX secolo, attorno al 1950, l'estrazione
dello zolfo nelle nostre miniere avveniva in maniera primordiale,
arcaica. L'unica innovazione, forse, rispetto al sistema dei secoli
precedenti era stata l'introduzione dei carrelli su rotaie (solo
otto in tre miniere) e del piano inclinato che in qualche modo aveva
alleviato la fatica e le sofferenze dei pochi carusi rimasti che da
lì a pochi anni, chiuse definitivamente le miniere, avrebbero
imboccato la via dell'emigrazione assieme ai loro padri e a tanti
altri compagni di sventura. Non è difficile rendersi conto che in
quel periodo di “rinascita” per il resto del paese, in zolfara,
c'era ben poco, forse nulla, di moderno.
L'Italia era uscita dalla seconda guerra mondiale duramente provata
e con un'economia da reinventare. La povertà diffusa, le case
distrutte, l'inflazione elevata, il comparto agricolo stagnante non
si presentarono come ostacoli insormontabili e in poco tempo la
neonata Repubblica riuscì ad inserirsi tra le prime dieci potenze
industriali del mondo. Alcuni fatti importanti avvengono nel primo
decennio successivo alla conclusione della guerra: l'introduzione
del suffragio universale, la proclamazione della Repubblica,
l’entrata in vigore della Costituzione, l'Autonomia siciliana, il
Piano Marshall, l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la
Riforma agraria.
La riforma agraria aggredì il latifondo ma non alleviò le sofferenze
dei contadini; la Cassa per il Mezzogiorno avrebbe costruito
cattedrali nel deserto e le zolfare siciliane continuarono a
denunciare i mali di sempre: la produzione era drasticamente
crollata (solo il 2% della produzione mondiale contro il 90% del
secolo precedente); una tonnellata di zolfo siciliano costava il
doppio di quello americano. Il numero degli occupati in miniera era
sceso drasticamente.
Mentre nella Sicilia orientale l'agricoltura si riprendeva, a Ragusa
veniva scoperto il petrolio e nasceva qualche industria, quella
occidentale diventava sempre più povera e clientelare e la mafia
riprendeva a far sentire il suono lugubre della lupara: 1947,
assassinio di Accursio Miraglia e strage di Portella delle Ginestre;
1953, omicidio di Placido Rizzotto; 1955, assassinio di Salvatore
Carnevale. L’industria estrattiva precipitava sempre più e i
lavoratori delle miniere avrebbero iniziato una serie di scioperi
per la salvaguardia del posto di lavoro, l’applicazione di un
contratto nazionale di lavoro, l’ammodernamento delle strutture e
l’istituzione di un’Azienda Zolfi Siciliani
[10].
Tutto fu inutile. Nel 1975 erano aperte solamente quattro miniere,
anch'esse costrette a chiudere dopo qualche anno.
Le miniere siciliane sono state chiuse e questa è la realtà. Svanì
con esse il sogno di una ricchezza facile e generalizzata che aveva
illuso per decenni non pochi conterranei. L'industria estrattiva
siciliana, al di là della concorrenza americana, non poteva avere
prospettive per carenza di capitali da investire, di infrastrutture,
strade e ferrovie, per l’insufficienza dei porti, per mancanza di
spirito associativo, per l'eccessivo sfruttamento degli zolfatari,
per la pochezza dell'industria chimica siciliana. E perché,
soprattutto, non si deve demandare ad altri quel che possiamo fare
noi.
Ne resta un retaggio storico, letterario, antropologico,
socio-culturale in genere che non deve essere assolutamente disperso
perché fa parte del nostro essere siciliani e perché tanto può
insegnare alle nuove generazioni. Fatica, sudore, lotte, amarezze,
successi, rivivono magicamente percorrendo i cunicoli e le gallerie
ormai deserte delle zolfare, testimoni silenti, ma non meno
efficaci, di vita e di morte.
La memoria di questo mondo di umiliazione e di lotta, di lutti e
riscatto appartiene per intero alla cultura siciliana.
In quegli anni la Sicilia, come tutto il Meridione, fece un notevole
balzo in avanti, ma il reddito pro capite continuò ad essere molto
basso e a risollevare le sorti dell'economia non servì la politica
dei lavori pubblici dello Stato. I Siciliani non seppero o non
vollero sfruttare lo strumento rivoluzionario, l'Autonomia, che
avevano a disposizione per studiare da vicino e risolvere gli annosi
problemi. Molti isolani ripresero la via dell'emigrazione,
trasferendosi nelle regioni settentrionali e altri ricominciarono ad
accarezzare il “sogno americano”.
Fara Misuraca
Alfonso Grasso
Febbraio 2012
Fonti bibliografiche
Note
[1]
Nella storia della filosofia, Il XVII secolo può essere
definito come il "rinascimento scientifico" grazie a
personalità come Galileo Galilei, Renè Descartes e da
Francis Bacon. Galileo indicò come elementi fondamentali del
metodo scientifico due procedimenti: "sensate esperienze" (
osservazioni ed esperimenti) e "necessarie dimostrazioni" (
dimostrazioni geometriche e matematiche). Galileo, come
purtroppo noto non ebbe vita facile e fu processato dalla
Santa Inquisizione per le sue idee. La filosofia della
scienza però continuò a svilupparsi in Paesi meno aggrediti
dall’integralismo cattolico, come la Francia, o del tutto
liberi dalla influenza papale, quale per l’appunto
l’Inghilterra. Al filosofo francese Cartesio si deve il
“metodo” , cioè la definizione dei procedimenti della
conoscenza razionale e della spiegazione dei fenomeni
naturali (metodo dell'evidenza, metodo dell'analisi, metodo
della sintesi, metodo dell'enumerazione). L’inglese Francis
Bacon sviluppò i primi studi sistematici sull'applicazione
del metodo induttivo nella ricerca scientifica. L'induzione
è il metodo con il quale si possono scoprire principi
generali, partendo dall'osservazione e dal confronto di
molti fenomeni naturali e sperimentazioni di laboratorio.
Seguirono gli approfondimenti di Isaac Newton, con il suo
fondamentale trattato di fisica e meccanica, “Principi
matematici della filosofia naturale” (1687). Gli studi di
filosofia della scienza ebbero ampio sviluppo nel
Settecento, detto “secolo dei lumi”, che in Inghilterra
videro protagonisti John Locke e David Hume. Nell'Ottocento,
sempre in Inghilterra, vennero poi sviluppati nuovi studi
originali sui metodi induttivi dal filosofo John Stuart
Mill.
Accanto al progresso del pensiero filosofico,
nella seconda metà del XVIII secolo si assiste in
Inghilterra alla costruzione di strade e canali che
forniscono un contributo determinante allo sviluppo degli
scambi commerciali e per la formazione del mercato interno.
Fra il 1760 e il 1774, il Parlamento inglese, anche per
motivi militari (favorire il rapido spostamento delle truppe
in ogni stagione dell'anno), emana una serie di atti
legislativi per migliorare le strade esistenti e per
costruirne di nuove attraverso il sistema del pedaggio che
incoraggiò l'iniziativa privata. Neanche la perdita delle
colonie americane, costituitesi negli Stati Uniti d’America,
frenò lo sviluppo industriale britannico che, anzi, trovò
nuovi sbocchi. Trascorso il periodo napoleonico, gli USA si
avvicinarono sempre più economicamente e politicamente alla
vecchia madrepatria, anche grazie ai capitalisti e banchieri
si mantennero alleati. Ricordiamo a tale proposito che,
specialmente tra i banchieri, vi erano molti ebrei, altrove
(Paesi cattolici) reietti e perseguitati, che nel mondo
anglo-sassone erano riusciti a far fortuna.
[2]
Trade unions (Sindacati operai inglesi). L'origine può
essere indicata nelle società di mutuo soccorso (friendly o
benefit societies), ammesse per legge nel 1793. Il divieto
di associazione sindacale, ribadito dalle Combination Laws
del 1799-1800, fu abolito nel 1824-1825, ma il
riconoscimento legale venne solo nel 1871. Le prime
organizzazioni, locali e ristrette agli operai più
qualificati dei singoli mestieri, cercavano di ottenere un
controllo sull'offerta di lavoro attraverso la limitazione
dell'apprendistato e l'obbligo ai datori di lavoro di
assumere i soli organizzati (closed shop). Con la fine
dell'agitazione cartista (1848), si accentuò il carattere
prevalentemente economico-rivendicativo e non politico del
sindacalismo inglese. Si operò il rafforzamento
organizzativo delle principali unioni (sindacati) di settore
(sull'esempio dell'Amalgamated Societies of Engineers,
1851), coordinate nel Trade Union Congress (Tuc) dal 1868.
Lo sciopero dei portuali londinesi del 1889 segnò la nascita
del “nuovo unionismo”, che iniziò a organizzare anche i
lavoratori meno qualificati. L'esigenza di riforme e di
sostegno all'azione sindacale spinse, al volgere del secolo,
alla costituzione del Labour Party (Partito laburista), che
mantenne una linea politica gradualista e riformista.
L'ampia autonomia delle singole unioni, la debole autorità
degli organismi di coordinamento, la scarsa permeabilità
alle idee socialiste di palingenesi sociale, furono i
caratteri peculiari del movimento sindacale inglese. (http://www.pbmstoria.it/dizionari/storia_mod/t/t069.htm)
[3]
Il carbonato di sodio (o carbonato sodico) è un sale di
sodio dell'acido carbonico. A differenza di quest'ultimo,
nel carbonato entrambi gli ioni idrogeno dell'acido sono
stati sostituiti da ioni sodio. Il carbonato di sodio è
stato chiamato a lungo soda, ma non è da confondere con la
soda caustica. Questa precisazione è resa necessaria in
quanto oggi con il termine soda si intende l'idrossido di
sodio (la soda caustica).
Il chimico Nicolas Leblanc nel 1792 sviluppò
il primo processo sintetico per la produzione di soda, ma da
fine '800 alla seconda metà del XX secolo, il 91% della
produzione industriale del carbonato di sodio avvenne
tramite il processo messo a punto nel 1861 dal chimico belga
Ernest Solvay - da cui il nome soda Solvay - che converte il
cloruro di sodio in carbonato di sodio usando carbonato di
calcio e ammoniaca.
A temperatura ambiente si presenta come una
polvere cristallina bianca. Per riscaldamento tende a
decomporsi liberando biossido di carbonio (calcinazione)
gassoso. Sciolto in acqua, produce una soluzione basica; una
soluzione di 50 g in un litro di acqua a 25 °C ha pH 11,5.
Trova impiego nella fabbricazione di vari
tipi di vetro - bottiglie, bicchieri, vetro piano per
l’edilizia, l’arredamento e l’auto - nell'industria della
carta e nella produzione di detergenti. In chimica, è un
moderato reagente alcalinizzante.
(http://it.wikipedia.org/)
[4]
Nel 1775 l'Accademia delle Scienze di Parigi aveva offerto
un ingente premio in danaro per chi fosse riuscito a
ottenere la soda dal sale marino. Nicolas Leblanc
(1742-1806) riuscì a realizzare un processo in due stadi.
Nel primo il sale era convertito in solfato di sodio con
l’aggiunta di acido solforico, nel secondo il solfato era
mescolato con carbone e carbonato di calcio, e per
riscaldamento si otteneva la soda e solfuro di calcio. La
soda veniva lisciviata e rimaneva una fanghiglia contenente
carbone incombusto, soda non lisciviata e solfuro di calcio,
facilmente decomponibile con esalazioni di idrogeno
solforato. In questa versione primordiale due componenti
essenziali andavano completamente perduti: il cloro del sale
che si disperdeva nell'aria sotto forma di cloruro di
idrogeno e lo zolfo dell'acido solforico che rimaneva
“bloccato” in un “caput mortuum” di odore pestilenziale.
Leblanc, travolto dalle vicende della Rivoluzione francese,
non ebbe la possibilità di vedere applicato il suo
procedimento e morì suicida nel 1806. Non così la sua
invenzione che fu ripresa e perfezionata da Charles Tennant
(1768-1838) e da James Muspratt (1793-1886).
Il sistema tecnico della soda Leblanc rimase sostanzialmente
invariato fino al 1863, quando per una singolare coincidenza
esso si trovò sottoposto a una duplice fortissima pressione,
economica e politica. La prima veniva dalla proposta di un
processo alternativo da parte del belga Ernest Solvay
(1838-1922), la seconda era costituita dall'inedita legge
anti-inquinamento inglese, l'Alkali Act (http://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell'industria_chimica)
[5]
Furono molti gli imprenditori che arrivavano nell’800 dal
Nord, attratti dai grandi guadagni delle miniere. Attorno al
1882 arrivarono anche i tecnici francesi, soprattutto a
Riesi. Dove giunse Federico Hoefer fondatore della Chiesa
Valdese. Quasi un’intera famiglia di tecnici inglesi
arrivarono a Caltanissetta, Foster, Louis Chambon, Alped
Skidmose, Ernest Santelli. Nel 1881 giunse a Riesi
l’ingegnere Emilio Bancilhon, inviato dalla Compagnie des
mines de Siufre, società che aveva sede a Parigi. Sposato
con una donna del luogo la sua famiglia si stabilì per
sempre in quella zona.
Tra gli arrivi degli stranieri, quello del
nipote dell’imperatore d’Etiopia è certamente l’episodio che
al di là del colore, sta a dimostrare come la scuola
mineraria di Caltanissetta fosse tenuta in gran conto. Il
giovane Brhanè Sillassiè Ybssa studiò a Caltanissetta dal
1929 al 1932 (Michele Curcuruto “I signori dello Zolfo”
www.cameracommercio.cl.it)
[6]
Canone di affitto. Veniva corrisposto in
natura, con una parte dello zolfo ottenuto dalla fusione,
chiamato estaglio, e che corrispondeva mediamente al
25% della produzione totale.
[7].
Il truck system consisteva nel pagamento di una parte
del salario in generi alimentari da ritirare nello spaccio
attiguo alle miniere ad un prezzo stabilito dal gestore e
spesso maggiorato rispetto all’esterno.
[8]
Il sistema si basa sul concetto che il calore prodotto dalla
fusione dello zolfo può essere utilizzato per la
preparazione del materiale da fondere successivamente.
L’impianto era basato su due o più celle in muratura di
forma troncoconica, adiacenti e comunicanti. Le costruzioni
erano sormontate da una calotta nel cui centro s'apriva un
foro circolare per la carica del minerale. Il suolo delle
camere inclinato, costituito da “ginisi”, e la “morte” erano
simili a quelle dei calcaroni. In alto le due celle
comunicavano fra loro con un condotto orizzontale, nel mezzo
del quale era collegata una tavola a saracinesca che serviva
a chiudere la comunicazione tra le due celle, che a loro
volta comunicavano con una canna fumaria.
Il forno veniva acceso, dopo aver messo in comunicazione le
due celle e chiuso le “morti” con muretti di gesso, con il
sistema delle fascine imbevute di zolfo.
Nel forno, acceso i prodotti di combustione della prima
cella detta “motrice” erano sufficienti a far
separare il minerale dalla ganga che era posta nella
seconda. La temperatura raggiungeva più di 200 gradi.
Per rendere il procedimento più
redditizio e usare al meglio i fumi prodotti, alle due celle
base se ne collegavano delle altre. Con questo tipo di forno
venne messo a punto un sistema che permetteva di rendere
programmabile la produzione, che determina dei ritmi e dei
tempi precisi e che si basa su un elementare principio di
risparmio energetico. La diffusione dei forni Gill, sarà
comunque inferiore a quella del calcarone.
[9]
Il lavoro femminile era utilizzato esclusivamente per la
insaccatura e per l’immagazzinamento, sfruttando la capacità
delle donne meridionali di portare pesi sulla testa in
maniera più efficiente che gli uomini.
[10]
I terribili e frequenti incidenti nelle zolfare hanno
ispirato poeti e scrittori: uno di questi, avvenuto nel 1951
nelle miniere del bacino di Lercara, venne documentato dallo
scrittore Carlo Levi nel libro Le parole sono pietre: “il
18 giugno, un ragazzo di diciassette anni, Michele Felice,
un “caruso” che lavorava nella miniera, venne schiacciato da
un masso caduto dalla volta di una galleria, e morì. È un
fatto frequente: anche il padre del morto aveva avuto una
gamba schiacciata da una frana nella zolfara. Alla
busta-paga del morto venne tolta una parte del salario,
perché, per morire, non aveva finito la sua giornata; e ai
cinquecento minatori venne tolta un'ora di paga, quella in
cui avevano sospeso il lavoro per liberarlo dal masso e
portarlo, dal fondo della zolfara, alla luce. Il senso
antico della giustizia fu toccato, la disperazione secolare
trovò, in quel fatto, un simbolo visibile, e lo sciopero
cominciò.” (Carlo Levi, Le parole sono pietre)
Pubblicazione de Il Portale del Sud, Febbraio 2012. Riproduzione,
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Contrariamente a quanto qui affermato, fu l'imprenditore francese Taix a proporre al governo di Napoli l'accordo del quale si parla, accordo che fu approvato da Ferdinando II malgrado la decisa opposizione di parte del governo, tanto che lo si concluse senza passare per il consiglio dei ministri.
RispondiEliminaNon voglio occupare spazio, sorvolo quindi sulle altre inesattezze contenute nell'articolo.