Br exit: tutto finirà là dove tutto è cominciato?
Mancano due mesi al referendum sulla permanenza del Regno Unito
nell’Unione €uropea ed i sostenitori del Br exit hanno buone possibilità
di vittoria: la tigre cavalcata da David Cameron per vincere le elezioni
del 2015, finirebbe così col divorare lui e gli avanzi delle
istituzioni brussellesi, sancendo la fine dell’€uropa unita, nata
paradossalmente proprio nei circoli della City londinese.
Il Regno Unito
è infatti allo stesso tempo uno Stato nazionale, geloso della sua
sovranità, e centro irradiante della finanza cosmopolita, che da sempre
si prodiga per diluire gli Stati in organismi sovranazionali.
Da oltre
oceano Washington osserva preoccupata l’evoluzione della situazione
€uropea: il Br exit e la susseguente implosione della U€ la priverebbero
della “testa di ponte” sul continente euroasiatico.
La City, il Regno Unito e l’Unione €uropea
Le fortune del Regno Unito poggiano sul patto stipulato secoli addietro tra corona d’Inghilterra e la finanza cosmopolita (apolide sionista), risalente per l’esattezza alla Gloriosa Rivoluzione (1688-1689) ed all’incoronazione di Guglielmo III d’Orange (1650-1702):
alla cacciata del cattolico Giacomo II e dalla sanguinosa repressione
degli irlandesi, seguono infatti l’avvento di un re protestante, la nascita della Banca privata apolide d’Inghilterra (1694), della massoneria speculativa e dell’impero commerciale-finanziario che raccoglie l’eredità di quello olandese (Uniliver e Royal Dutch Shell sono il retaggio dell’asse tra Londra ed Amsterdam benedetto dalla finanza).
L’alleanza tra l’establishment inglese e la finanza cosmopolita sionista decide per secoli le sorti dell’Occidente finché, nei primi due decenni del XX secolo,
non subentra la potenza sionista statunitense a quella inglese: si passa così
dal connubio tra inglesi e banchieri internazionali a quello tra angloamericani e siofinanza.
La City e Wall Street diventano gli esclusivi distretti finanziari dove si fa la politica mondiale.
Il Regno Unito ha quindi storicamente una doppia natura, Stato nazionale e sede della City, una doppia natura che, pur essendo all’origine delle sue ricchezze, produce talvolta sintomi di schizofrenia: è il caso dell‘unione politica dell’Europa.
La finanza internazionale, usando come braccio operativo la massoneria (si ricordi che la Loggia Madre ha sede a Londra) lavora infatti sin dai tempi della Rivoluzione Francese (1789) per ripetere in Europa l’esperimento americano culminato con la guerra d’indipendenza (1775-1783): ovvero ---> la nascita di uno Stato federale, gli Stati Uniti d’€uropa, necessari affinché una ristretta oligarchia finanziaria possa esercitare incontrastata il controllo sul Vecchio Continente (fenomeno già visibile nella BC€, dove un uomo, l’ex-Goldman Sachs Mario Draghi, decide quasi autonomamente la politica monetaria di 19 Paesi).
Il Regno Unito inteso come Stato-nazione, potenza insulare e da sempre fautore della politica dell’equilibrio tra le nazioni europee, è storicamente scettico su disegni federativi coltivati dalla City stessa e dalla finanza cosmopolita: l’allergia inglese all’€uropa unita, culminata in questi mesi col Br exit, risale infatti ai primi decennio del ‘900.
Negli anni ’20 del secolo scorso, le grandi famiglie dell’alta finanza come i Rothschild ed i Warburg, affiancate dalle più illustri ed influenti istituzioni atlantiche (Chatham House, Council on Foreign Relations, Carnegie Endowment for International Peace) sono tra i principali finanziatori e sostenitori del movimento Pan€uropa di Richard Coudenhove-Kalergi, “bisnonno” dell’attuale Unione €uropea: il progetto di una federazione di Stati sembra alla portata di mano attorno al 1929, sotto la direzione del francese Aristide Briand. Benché la City lavori attivamente per gli Stati Uniti d’€uropa, l’elemento “nazionale” del Regno Unito la pensa però diversamente.
Scrive Coudenhove-Kalergi nel suo libro autobiografico “Una vita per l’Europa”:
“Molti Stati chiedevano l’inclusione nell’unione €uropea della Russia e della Turchia, Paesi che allora non facevano parte della Società delle Nazioni. Quasi tutte le risposte ponevano come condizione l’inclusione della Gran Bretagna. Ma la risposta inglese fu evasiva.
Quel governo non voleva che l’Inghilterra fosse esclusa dall’Europa né che vi fosse inclusa. Voleva impedire una federazione di Stati €uropei (…) L’iniziativa di Briand era annientata dalla vittoria elettorale di Hitler. Invece di un’unione degli Stati europei fu creato un “Comitato di studi per una unione €uropea”.
Al termine del secondo conflitto mondiale, installatisi i sovietici
in Germania ed Austria e piombati gli Stati europei in una drammatica
prostrazione sociale e materiale, gli angloamericani tornano alla carica
per unire le nazioni europee in un unico soggetto politico, obbiettivo
che sembra di nuovo facilmente conseguibile.
Esiste tuttavia una
diversità di fondo: mentre Washington preme per gli Stati Uniti d’Europa
(il senatore James William Fulbright presenta nel 1947 la risoluzione: “il Congresso appoggia a creazione degli Stati Uniti d’Europa nel quadro delle Nazioni Unite”), il Regno Unito, nonostante abbia concesso l’indipendenza all’India nel 1947,
è ancora recalcitrante all’idea di legarsi ad una federazione
continentale, sicuro di poter svolgere ancora un ruolo mondiale grazie
al Commonwealth.
Nonostante l’ex-premier Wiston Churchill ed il genero Duncan Sandys siano quindi gli animatori del European Movement International, gli inglesi hanno precise idee sull’Europa unita.
Scrive ancora Coudenhove-Kalergi ricordando il congresso dell’Aia del 1948:
“Per l’Inghilterra la questione era diversa. I suoi impegni con i Dominions le impedivano di stringere legami troppo stretti con i continente. A questo si aggiungeva una ragione psicologica. La Gran Bretagna non ha una costituzione scritta, né per la madrepatria, né per il Commonwealth.
Si ribellava al pensiero di essere legata al continente mediante una costituzione scritta e di dover ubbidire al leggi che vengono approvate da una maggioranza continentale contro i voti britannici. Pertanto desiderava un’unione europea di Stati indipendenti, non uno Stato federale”.
Nascono di conseguenze due Europe: la CE€ (Francia, Germania, Belgio, Olanda, Lussemburgo ed Italia), le cui basi sono gettate con il Trattato di Roma del 1957, e, a distanza di pochi anni l’Associazione europea di libero scambio (AELS), guidata dal Regno Unito ed estesa a Austria, Danimarca, Norvegia, Portogallo, Svezia, Svizzera.
Il blocco continentale è così guidato dalla Francia di Charles De Gaulle, deciso a sfruttare “l’€uropa Unita” come moltiplicatore della forza di Parigi e contenere l’egemonia americana.
Scrive Coudenhove-Kalergi :
“De Gaulle conosce una specie sola di patriottismo europeo in contrasto con i tentativi americani di egemonia. Capisce la necessità di un’alleanza atlantica. Ma respinge l’idea di un “sole centrale” americano intorno al quale le nazioni europee debbano ruotare come pianeti. La sua meta è la collaborazione tra gli Stati Uniti d’America e l’unione degli Stati europei, sulla base della parità di diritti. (…)
La sua meta era anzitutto una lega di Stati sovrani, la cui politica coordini in tutti in campi gli interessi comuni: un’Europa delle patrie. Molti dei migliori europei vedevano in questo programma una regressione in confronto agli sforzi di integrazione europea di Robert Schuman, Paul Henri Spaak, Jean Monnet e Konrad Adenauer (…) Desiderano anzitutto la caduta di De Gaulle. La loro propaganda tendeva ad accelerare questa caduta, come premessa per l’unione dell’€uropa”
Il generale De Gaulle si
trova così ad affrontare una doppia sfida: quella interna, degli
“€uropeisti” francesi che lavorano per la sua caduta, “premessa per l’unione dell’€uropa”,
e quella esterna dall’establishment atlantico, deciso a vanificare i
suoi tentativi di creare un blocco continentale, ostile agli
angloamericani ed aperto alla collaborazione con la Russia, anche sovietica (“l’€urope de l’Atlantique à l’Oural”1). Come neutralizzare la strategia di De Gaulle?
Si tenta di reintrodurre dalla finestra il Regno Unito (i cui Dominions si riducono anno dopo anno), affinché ne arresti la deriva euroasiatica e ne garantisca il fermo ancoraggio atlantico: a due riprese (1963 e 1967) l’anziano De Gaulle blocca la domanda inglese di accedere alla Comunità Economica €uropea, finché il suo successore, l’ex-direttore generale della banca Rothschild, Georges Pompidou, non dà il nulla osta all’operazione. Il premier conservatore inglese Edward Heat può così firmare nel 1973 l’intesa per lo sbarco di Londra “sul Continente”.
Da allora sono quattro le priorità inglesi in €uropa:
- difesa: impedire la nascita di un’alleanza militare o di un coordinamento tra le forze armate €uropee alternativo alla NATO e controllare le forze di sicurezza comunitarie esistenti (come l’agenzia €uropol diretta dall’inglese Rob Wainwright);
- esteri: salvaguardare il carattere atlantico della CE€/U€, cosicché la politica estera europea sia conforme agli interessi angloamericani, reprimendo di volta in volta le pulsioni dei singoli Stati ad agire difformemente (vedi le sanzioni all’Iran, alla Russia ed il comportamento dinnanzi alla destabilizzazione NATO del Mediterraneo passata alla storia come “Primavera Araba”);
- servizi finanziari: difendere gli interessi della City sul Continente, assicurarsi che la CE€/U€ non prenda alcun provvedimento che la svincoli dal giogo della finanza anglosassone (l’inglese Jonathan Hill è commissario €uropeo per i servizi finanziari), controllare gli organismi finanziari comunitari (il governatore della BC€ Mario Draghi è tra gli italianiad essere saliti nel 1992 sul panfilo inglese Britannia e prima di occupare l’attuale carica è stato vicepresidente a Londra di Goldman Sachs International2).
- economia: impedire che la CE€/U€ si trasformi in una riedizione del blocco continentale napoleonico, tagliando fuori dall’economia €uropea gli USA e le multinazionali statunitensi che hanno delocalizzato in giro per il mondo.
A questo proposito è illuminante la recente lettera pubblicata sul The Telegraph (“Barack Obama is entitled to tell us what America thinks about Brexit”3) con cui l’ex-Segretario di Stato per gli Affari Esteri, William Hague, perora la causa della permanenza di Londra nella U€, evidenziando l’interesse di Washington a preservare lo status quo.
Scrive Hague:
“This is partly because the UK plays a crucial role in ensuring the EU generally supports the objectives of the US and that there is usually transatlantic unity of action. When America needed strong sanctions to bring Iran to the nuclear negotiating table, Britain helped to make sure the whole EU adopted and implemented those sanctions. And without Britain to push for sanctions on Putin’s Russia when Crimea was invaded and annexed, the response of the EU would have been tremulously weak.
Not only is Britain a decisive voice in keeping Europe and America positively aligned, it is also of immense importance in frustrating some of the silliest ideas that emerge in the EU that would pull it away from America. In 2012, many EU states, led by France, made a determined push to set up an EU military headquarters. For the obvious reason that this would duplicate and potentially undermine Nato and in my capacity as the then foreign secretary, I strongly opposed it. (…)
It is simply that British and American attitudes are very often in tune, and a Europe without British ministers at its council tables would be less often aligned with our cousins across the Atlantic. This is true on economic matters as well as military and strategic issues. A Europe without the UK would be a more protectionist one, greater weight to Mediterranean instincts that would make it still harder to negotiate the long-awaited and much-needed Transatlantic Trade and Investment Partnership.”
Nonostante l’ingresso di Londra nella CE€, il
conflitto tra lo Stato-nazione inglese, geloso della sua indipendenza e
legato alla tradizione del Commonwealth, e la finanza cosmopolita della
City è solo sopito, pronto a riesplodere appena si affaccino ulteriori cessioni di sovranità: è la storia della lady di ferro, Margaret Thatcher, l’anima del conservatorismo inglese più profondo e tradizionalista.
La strenua opposizione della Thatcher all’introduzione dell’€uro, considerato
come uno strumento per estorcere sovranità agli Stati nazionali,
accelerando la nascita di un’€uropa federale, porta nel 1990 alle
dimissioni del suo vice-premier Geoffrey Howe, schierato su posizioni €uropeiste, ed alla caduta del governo, mettendo così la parola “fine” sulla pluridecennale permanenza della Thatcher a Downing Street.
Irriducibile, la lady di ferro guiderà anche da deposta la fazione dei conservatori che si oppone strenuamente al Trattato di Maastricht.
Se la Gran Bretagna, John Major primo ministro, firma gli accordi che gettano le basi della U€ e della moneta unica, lo fa quindi non solo salvaguardando la sterlina, ma anche la sua libera fluttuazione sui mercati, opponendosi a qualsiasi ancoraggio al Sistema Monetario €uropeo dopo lo choc del 1992.
Chi avrebbe dovuto
condurre il Regno Unito nella grande famiglia dell’euro, sfidando
l’ostilità dell’opinione pubblica, è il primo ministro laburista Tony Blair, alfiere della finanza e grande sostenitore della deregolamentazione dei mercati: “Mr Blair is undoubtedly keen for Britain to join the euro as soon as possible. A second Labour landslide would open a window of opportunity for him to achieve this goal” scrive nel giugno 2001 The Economist,
evidenziando come tutte le stelle (il secondo mandato di Blair,
l’introduzione fisica dell’euro, la rassegnazione dell’elettorato di
fronte ad un sempre maggiore convergenza verso l’Europa) siano allineate correttamente per spingere Londra nell’euro4.
Gli attentati del 9/11 stravolgono però a distanza di pochi mesi
l’agenda del premier, invischiato nelle avventure belliche di George W.
Bush: l’ultima finestra per introdurre l’euro si chiude e passeranno forse secoli perché le stelle siano di nuovo allineate.
Si arriva così alla crisi dei mutui spazzatura ed al fallimento di Lehman Brothers (settembre 2008), seguito a ruota dall’avvio dell’eurocrisi (i
primi declassamenti del debito greco risalgono al dicembre 2009): il
crollo di Wall Street e la seguente recessione sono l’atteso choc esterno che innesta il deflusso di capitali dalla periferia dell’eurozona verso il centro, mandando in crisi il regime a cambi fissi chiamato euro ed inaugurando l’ultima fase del ciclo di Frenkel. La crisi dell’euro, conviene sempre ricordarlo, non è infatti un fulmine a ciel sereno, ma è stata ideata, pianificata ed attesa
sin dalle origini della moneta unica, così da fornire alle oligarchie
finanziere lo spunto decisivo per l’unione fiscale e politica, ossia gli
Stati Uniti d’€uropa.
In questo contesto, da un lato il Regno Unito evita di essere travolto dalla sua abnorme e spericolata industria finanziaria svalutando la sterlina di quasi il 30% rispetto all’euro ed avviando un massiccio allentamento quantitativo (200 £mld di titoli acquistati dalla BOE nel solo 2009) da allora mai interrotto, dall’altro lato, la City apre le danze della destabilizzazione dell’eurozona: sia ben chiaro, l’obbiettivo non è il collasso della moneta unica, bensì il saccheggio dei risparmi dell’europeriferia, accompagnato dall’instaurazione di un clima di paura ed incertezza propedeutico alla cessione di sovranità agli organi di Bruxelles. Entrati
quindi nel vivo del “processo federativo” dell’Europa, quando in
sostanza è giunta l’ora di svuotare i singoli parlamenti dell’autonomia
fiscale, riemerge però prepotentemente lo Stato-nazione inglese: il
premier David Cameron rifiuta nel 2011 di partecipare al Fondo salva Stati creato per puntellare l’eurozona5, pressato dal Parlamento dove pochi mesi prima è stata soffocata a stento un fronda di conservatori che invocava un referendum sulla permanenza del Regno Unito nella UE6.
Trascorrono altri cinque
anni: l’eurocrisi si estende a macchia d’olio a tutto il Continente, la
situazione finanziaria, politica e sociale si fa sempre più precaria
nell’europeriferia, esplode il fenomeno dell’immigrazione di massa dai
Paesi destabilizzati dalla NATO ed il processo d’integrazione europea, anziché procedere, si involve drammaticamente (vittoria di partiti anti-europeisti, sospensione de facto degli
accordi di Schengen, crescente tensione sulla politica monetaria della
BCE). Il premier David Cameron, incalzato dal partito euro-scettico UKIP e indebolito dalle sedizioni dentro il partito conservatore, si presenta alle elezioni politiche del 2015 cavalcando la tigre del referendum sulla UE: se confermato a Downing Street, Cameron promette di indire una consultazione sulla permanenza del Regno Unito in Europa.
Cameron è rieletto, ma la tigre è uscita dalla gabbia.
La tigre che divorerà David Cameron e la U€
David Cameron avrà probabilmente qualche buona qualità, ma certamente non quelle dell’abile tattico: si direbbe, al contrario, che sia incapace di usare il pallottoliere con cui contare chi lo appoggia e chi gli è contro.
Già nell’agosto 2013 Cameron sopravvisse per il
rotto della cuffia al voto parlamentare con cui la Camera dei Comuni
bocciò clamorosamente l’intervento militare britannico in Siria, contro il parere del premier che perorava il bombardamento dell’esercito di Bashar Assad sull’onda dell’attacco chimico a Damasco (perpetrato dai sauditi e/o turchi).
Nel
caso del referendum sull’Unione Europea si direbbe che Cameron abbia
commesso lo stesso errore di valutazione, questa volta, però,
potenzialmente fatale per la sua carriere: la scommessa di Cameron si basava infatti sulla promessa di indire referendum, sulla seguente rinegoziazione dei rapporti tra Regno Unito e U€ e sulla vittoria finale del “sì” per rimanere nell’€uropa à la carte plasmata da Londra.
David Cameron è infatti ascrivibile a pieno titolo, come John Major, alla categoria dei “conservatori €uropeisti”.
La strategia di David Cameron entra però in crisi quando le concessioni strappate alle U€ (limitazione per sette anni dei sussidi sociali ai cittadini comunitari, esenzione da qualsiasi ulteriore cessione di sovranità e tutela degli interessi della City) si rivelano deludenti agli occhi degli €uroscettici; quando il carismatico sindaco di Londra (ed aspirante primo ministro) Boris Johnson scende in campo a favore della Br exit; quando i sondaggi rivelano come i fautori del “no” alla U€ siano più intenzionati a partecipare al referendum senza quorum7.
Si avvicina così la fatidica data del 23 giugno e l’eventualità del Br exit è più concreta che mai: nonostante i sondaggi segnalino un vantaggio del “Remain” nell’ordine dei dieci punti percentuali (52% vs 43%), è ormai assodato che queste rilevazioni servano ad influenzare più che a sondare l’opinione pubblica, come testimoniato dalla clamorosa vittoria dell’no al referendum greco sulle condizioni della Troika, dato per perdente da quasi tutti i sondaggi pubblicati prima della consultazione.
Chi ovviamente è deciso a scongiurare l’eventualità di un Br exit, con effetti esplosivi sulla tenuta complessiva della U€, è la City di Londra (con la solita stampa annessa, dal Financial Times al The Economist), che si spende per l’integrazione €uropea sin dai primi decenni del secolo scorso: Goldman Sachs e JP Morgan Chase sono tra i maggiori finanziatori della campagna per il “sì” alla permanenza in €uropa (“Goldman Sachs makes large donation to pro-€U campaign” scrive il Financial Times) ed i maggiori nomi della finanza e dell’industria inglese (Shell, BAE Systems, BT, Rio Tinto, etc. etc.) si sono schierate compatte a fianco di David Cameron per restare nella U€(“Big
business backs Cameron’s push to keep Britain in the €U. Bosses of
about half of 100 largest companies to sign letter of support for In
campaign” titola ancora il Financial Times).
Come nel caso del referendum ellenico ( ad ulteriore testimonianza di quanto sia alta la probabilità del Br exit) scatta poi la consueta campagna intimidatoria che pronostica le dieci piaghe d’Egitto
nel caso in cui i cittadini votino contro la U€: sterlina in
avvitamento, PIL in contrazione, costi annui nell’ordine delle 4.000
sterline per famiglia, mercati chiusi per le esportazioni (ma non esiste il WTO?), etc. etc.
I rischi che le
oligarchie finanziarie corrono nel caso che Londra esca dall’Unione
€uropea sono sinteticamente riassunti nell’articolo apparso il 27 febbraio su The Economist col titolo “The real danger of Brexit. Leaving the €U would hurt Britain—and would also deal a terrible blow to the West”, di cui merita di essere riportato uno stralcio8:
“Europe would be poorer without Britain’s voice: more dominated by Germany; and, surely, less liberal, more protectionist and more inward-looking. Europe’s links to America would become more tenuous. Above all, the loss of its biggest military power and most significant foreign-policy actor would seriously weaken the EU in the world. The EU has become an increasingly important part of the West’s foreign and security policy, whether it concerns a nuclear deal with Iran, the threat of Islamist terrorism or the imposition of sanctions against Russia. Without Britain, it would be harder for the EU to pull its global weight—a big loss to the West in a troubled neighbourhood, from Russia through Syria to north Africa. It is little wonder that Russia’s Vladimir Putin is keen on Brexit—and that America’s Barack Obama is not. It would be shortsighted for Eurosceptics to be indifferent to this. A weakened Europe would be unambiguously bad for Britain, whose geography, unlike its politics, is fixed.”
Gli argomenti sono gli stessi già impiegati da William Hague: Londra è il garante della natura atlantica dell’Unione €uropea, è la cancelleria che tiene Bruxelles nell’orbita di Washington, è la potenza che ha imposto al resto dei 28 membri le sanzioni all’Iran ed alla Russia (spalleggiata da Angela Dorothea Kasner, alias “Merkel”), è il baluardo degli interessi angloamericani nella U€, intesa in termini geopolitici come la “testa di ponte” di Washington sul continente euroasiatico.
Non c’è quindi da meravigliarsi che Barack Obama si spenda pubblicamente contro il Br exit9 (intervenendo a gamba tesa negli affari di un Paese terzo), a differenza di Vladimir Putin che, in privato, tiferà quasi sicuramente per il Br exit e la sua conseguente implosione della U€.
Già, perché sono basse le probabilità che la City e Wall Street risparmino l’Unione €uropea nel caso di un addio inglese: sarebbe troppo grande il rischio che la U€ si evolva in nuovo “blocco continentale” napoleonico, egemonizzato dalla Germania, oppure, ancor peggio, in quell’€uropa “dall’Atlantico agli Urali” preconizzata da Charles De Gaulle, il vero incubo strategico delle potenze marittime anglosassoni.
Sarebbe più concreto invece lo scenario di un Br exit seguito a ruota dall’assalto speculativo che infligga il colpo di grazia alla già debilitata €urozona, sancendo così l’implosione dell’Unione €uropea: il pericolo di un blocco continentale a guida tedesca sarebbe così scongiurato e si tornerebbe alla tradizionale politica dell’equilibrio tra potenze con cui Londra ha gestito per secoli gli affari €uropei, magari nella cornice del TTIP per ostacolare lo scivolamento dell’€uropa verso est.
Concludendo, il 23 giugno sarà probabilmente la prima tappa dello smantellamento formale della U€ (quello sostanziale risale alle restrizioni sui movimenti dei capitali adottate a Cipro nel 2013): sommando altre emergenze, come l’atteso picco migratorio, il rigurgito della Gr exit, la riedizione delle elezioni spagnole ed i probabili sconquassi borsistici di accompagnamento, l’estate 2016 si preannuncia la più bollente degli ultimi decenni.
Il “No” all’€uro di Margaret Thatcher che le costa la permanenza a Downing Street, 1990
1http://www.charles-de-gaulle.org/pages/l-homme/dossiers-thematiques/de-gaulle-et-le-monde/de-gaulle-et-lrsquoeurope/analyses/lrsquoeurope-de-lrsquoatlantique-a-lrsquooural.php
2http://www.goldmansachs.com/media-relations/press-releases/archived/2002/2002-01-28.html
3http://www.telegraph.co.uk/news/2016/04/18/barack-obama-is-entitled-to-tell-us-what-america-thinks-about-br/
4http://www.economist.com/node/645986
5http://www.ilgiornale.it/news/no-gran-bretagna-fa-saltare-laccordo-27-nasce-ue-due-velocit.html
6http://www.bbc.com/news/uk-politics-15425256
7http://www.independent.co.uk/news/uk/politics/eu-referendum-poll-puts-remain-nearly-10-per-cent-ahead-of-brexit-camp-a6990426.html
8http://www.economist.com/news/leaders/21693584-leaving-eu-would-hurt-britainand-would-also-deal-terrible-blow-west-real-danger
9http://www.adnkronos.com/fatti/esteri/2016/04/21/obama-londra-attesa-per-intervento-anti-brexit_7RgKVex5lW3HmQWwLOZ4CM.html
Nessun commento:
Posta un commento