Il massacro di Napoli e del Regno delle
Due Sicilie - appunti su un genocidio
Nel 1815, quando i Borboni ritornarono a Napoli, la
popolazione era di 5.060.000, nel 1836 di 6.081.993; nel 1846 la
popolazione arrivò a 8.423.316 e dieci anni dopo a 9.117.050.
Questo vorticoso aumento della popolazione ha nome e cognome: benessere e progresso
civile e sociale. Durante 127 anni di governo i Borboni diedero
prosperità a tutto il popolo e da 3 milioni di anime, del 1734, si
arrivò ai 9 milioni del 1856.
Cos’ era successo? Come fu possibile?
Nel Meridione non si costruivano strade fin dal tempo dei Romani e i
vicerè spagnoli impoverirono la popolazione esigendo tasse e balzelli, i
baroni inselvatichirono la vita civile, le campagne erano abbandonate, i
boschi avevano invaso le terre fertili di buona parte del Regno, i
pirati razziavano le coste, il commercio non esisteva quasi più e, non
essendoci polizia, nessuno rispettava le leggi e solo gli innominati di
manzoniana memoria erano i veri padroni della società .
I Borboni riuscirono dove gli altri fallirono, imbrigliarono e
resero quasi innocui i baroni, costruirono strade, ricostituirono
l’esercito e le amministrazioni locali cui diedero l’antica autonomia,
diedero impulso all’industria, all’agricoltura, alla pesca, al turismo.
Da ultimo, tra gli Stati, divenne il primo d’Italia e tra i primi del
mondo. Le ferrovie, inventate nel 1820, fecero la loro prima
apparizione a Napoli (1839) con il tratto che congiungeva la capitale a
Portici e poi fu concessa al Bayard di continuarla fino a Castellammare.
A spese del tesoro nel 1842 cominciò quella per Capua e poi l’altra per
Nola, Sarno e Sansevero. Nel 1837 arrivò il gas e nel 1852 il telegrafo
elettrico.
Col benessere aumentava la popolazione in tutto il regno e per questa
stessa ragione anche le entrate pubbliche che, di fatto,
quintuplicarono.
Le strade erano sicure, non più masnadieri per terra ne pirati per
mare; eliminate le leggi feudali fecero ordine sui territori e
concessero, primi al mondo, la terra a chi la lavorava;
furono così estirpate le boscaglie per far posto a frutteti e vigneti;
furono prosciugate le paludi in tutto il regno e regalate ai contadini;
furono arginati fiumi e torrenti.
Si mise ordine all’ amministrazione pubblica
La scuola pubblica fu istituzionalizzata come primaria e quella
religiosa a far da supporto. Laicismo e religiosità si confondevano,
dando al regno nuovo impulso culturale. Fiorirono pittori, architetti,
scultori, musicisti e grande sviluppo ebbe l’artigianato.
Il teatro San Carlo, fu costruito in soli 270 giorni e la stessa
corrente culturale fece nascere l’Officina dei Papiri, il Museo
Archeologico, l’Orto Botanico, l’Osservatorio Astronomico, la Biblioteca
Nazionale e, primo al mondo, l’Osservatorio Sismologico Vesuviano.
Lo sviluppo industriale fu travolgente e in venti anni raggiunse
primati impensabili sia nei settori del tessile che in quello
metalmeccanico con 1.600.000 addetti contro il 1.100.000 del resto d’Italia.
Nacquero industrie tecnologicamente avanzate, dando vita a ferrovie e
battelli a vapore e costruendo i primi ponti in ferro in Italia, opere
d’alta ingegneria in parte ancora visibili sul fiume Calore e sul
Garigliano.
La navigazione si sviluppò in modo impressionante, tanto che il
governo borbonico fu costretto a promulgare, primo in Italia, un Codice
Marittimo creando dal niente una rete di fari per tutta la costa.
Le navi mercantili del Regno delle Due Sicilie solcavano i mari di tutto il mondo e la sua flotta era seconda solo a quella Imperiale Inglese e così pure la flotta da guerra, terza
in Europa dietro quella inglese e quella francese. Le compagnie di
navigazione pullulavano e così pure i cantieri navali, tutti forniti di
manodopera di prim’ordine; i suoi maestri d’ascia e così i velai e i
carpentieri erano richiesti in tutto il mondo.
Le industrie tessili, navali, metalmeccaniche pullulavano in tutto il
regno: quella di Pietrarsa, con mille operai e settemila d’indotto, ne
era la punta di diamante. Gli operai lavoravano otto ore al giorno e
guadagnavano abbastanza per sostentare le loro famiglie e primi in
Italia usufruirono di una pensione statale in quanto fu istituito un sistema pensionistico (con ritenuta del 2% sugli stipendi).
Nel Regno la disoccupazione era praticamente inesistente e così l’emigrazione
Oltre al milione e seicentomila addetti nell’industria vi erano duecentomila commercianti e tre milioni e mezzo di contadini.
Il denaro circolava e le banche sovvenzionavano le imprese con mutui
a basso interesse. Gli sportelli bancari erano diffusi in ogni paese e
villaggio e prime al mondo, le banche del Regno, furono autorizzate dal
Governo ad emettere i polizzini sulle fedi di credito ossia i primi
assegni bancari della storia economica moderna.
Il turismo non era da meno delle altre industrie: la Sicilia, la
Campania, il basso Lazio erano ricchissimi di reperti archeologici greci
e romani che, affiancati da musei e biblioteche, diedero un impulso
notevolissimo alla costruzione di alberghi e pensioni in quanto i
viaggiatori aumentavano anno dopo anno.
Sorsero così le prime agenzie turistiche italiane e Carlo III di
Borbone intuendo l’importanza di Pompei ed Ercolano, profondendo mezzi e
denaro fondò l’Accademia di Ercolano, dando così, di fatto, inizio agli
scavi.
Oggi Pompei è una delle città più visitate del mondo, con un milione di presenze all’ anno.
Oltre a bonificare le paludi, per dare lavoro ad operai e contadini,
istituirono collegi militari come la Nunziatella, Accademie Culturali,
scuole di Arti e Mestieri, Monti di Pegno e Frumentari
Le Università sfornavano fior di professionisti e scienziati e il
Regno poteva vantare il più basso tasso di mortalità infantile in
Italia. Erano sparsi sul territorio ospedali, ospizi e ben 9.000 medici.
Lo Stato godeva di buona salute, il deficit era quasi inesistente ed il suo patrimonio aureo era invidiato da tutte le nazioni.
Avendo buona amministrazione e finanze oculate la Borsa di Parigi,
allora la più grande del mondo, quotava la Rendita dello Stato
napoletano al 120 per cento, ossia la più alta di tutti i Paesi.
Nella conferenza internazionale di Parigi del 1856 fu assegnato al Regno delle Due Sicilie il premio di terzo paese del mondo, dopo l’Inghilterra e la Francia, per sviluppo industriale.
L’industria trainante, controllata con oculatezza dallo Stato e
assistita dal sistema bancario non centralizzato, procurò dapprima i
beni di consumo che servivano alla comunità per poi cominciare ad
esportarli.
L’industria di trasformazione dei prodotti agricoli fu fondamentale
per lo sviluppo dell’ agricoltura come quella tessile per la pastorizia.
Centinaia di frantoi macinavano le olive, centinaia di mulini
trasformavano in farina il grano del Regno, migliaia di forni sparsi per
le città ed i villaggi lavoravano il pane, decine di pastifici
producevano pasta e conserve.
Tutto questo è oggi, ai più, ignoto oltre che al Nord dell’Italia, anche nel Mezzogiorno stesso
Il 13 febbraio 1861 cadeva la fortezza di Gaeta: tre mesi di resistenza; tre mesi di massacri perpetrati dal generale Cialdini. 160 mila bombe rasero al suolo la città tirrenica e fiaccarono per sempre la sua vitalità .
Camillo Benso di Cavour diede al generale Cialdini l’ ordine di
distruggere Gaeta in quanto stava ritardando i tempi per il suo disegno.
Il Primo Ministro piemontese sapeva che il Piemonte era alla
bancarotta, come sapeva che la sifilide lo stava divorando.
Prima di morire voleva vedere attuato il suo capolavoro: la cosiddetta Unità d’Italia.
Il 13 febbraio 1861 è una data che ogni Meridionale
dovrebbe memorizzare perché da allora iniziò una resistenza senza
quartiere contro gli invasori savoiardi che al Sud nessuno voleva.
Nacque in quel giorno la questione meridionale
Il Sud prospero venne saccheggiato delle sue ricchezze e delle sue
leggi; venne immolato alla causa nazionale; venne immolato alla
massoneria che da Londra dirigeva e stabiliva il nuovo assetto mondiale.
Il Regno delle Due Sicilie, unico stato libero ed indipendente da
influenze straniere, fu dato in pasto agli affamati piemontesi.
Nel 1861 il Piemonte, per conto di Mr. Albert Pike, Gran Maestro Venerabile della massoneria di Londra, iniziava il più grande genocidio e prima pulizia etnica della storia del nostro paese, in concerto col suo discepolo massone Mazzini.
A metà agosto i giornali di regime stampavano con enfasi le vittorie
militari dell’esercito sabaudo e fecero passare per una grande battaglia
la scaramuccia di Castelfidardo, mentre calavano una cortina di
silenzio sugli eccidi perpetrati dai generali piemontesi contro
cittadini inermi.
Cannoni contro città indifese; fuoco appiccato alle case, ai campi;
baionette conficcate nelle carni dei giovani, dei preti, dei contadini;
donne incinte violentate, sgozzate; bambini trucidati e sodomizzati; vecchi falciati
al suolo.
Ruberie, chiese invase, saccheggiati, i loro tesori rubati, quadri,
statue trafugate, monumenti abbattuti, libri bruciati, scuole chiuse per
decreto.
La fucilazione di massa divenne pratica quotidiana. In dieci anni dal
1861 al 1871 circa novecentomila cittadini furono uccisi su una
popolazione complessiva di 9.117.050. Mai nessuna statistica fu data dai
governi piemontesi. Nessuno doveva sapere.
Alcuni giornali stranieri pubblicarono delle cifre terrificanti: dal
settembre del 1860 all’agosto del 1861 vi furono 8.968 fucilati, 10.604
feriti, 6.112 prigionieri, 64 sacerdoti, 22 frati, 60 ragazzi e 50 donne
uccisi, 13.529 arrestati, 918 case incendiate e 6 paesi dati a fuoco,
3.000 famiglie perquisite, 12 chiese saccheggiate, 1.428 comuni
sollevati.
Dati che erano sottostimati almeno di cento volte; le notizie il
ministero della guerra le dava col contagocce, in quanto all’estero
doveva apparire tutto tranquillo e mai giornalista fu ammesso a
constatare ciò che stava accadendo nelle province meridionali. Il
movimento rivoluzionario antipiemontese, chiamato brigantaggio,
in realtà fu un grandissimo movimento di resistenza, per la difesa
della loro patria, il loro Re e la Chiesa Cattolica, da un’ orda
massonica che voleva colonizzare il Meridione.
Quella setta governa ancora
Le cifre che pubblicavano i giornali stranieri erano sottostimate;
il governo piemontese aveva dato ordine di mettere a ferro e fuoco il
Regno delle Due Sicilie e dette carta bianca ai vari comandanti
militari. L’esercito piemontese fu ammaestrato ed addestrato agli
eccidi di popolazioni inermi, a rappresaglie indiscriminate, al
saccheggio, alla fucilazione sommaria dei contadini colti con le armi in
mano o solamente sospettati, arresti di partigiani o solo sospettati di
esserlo, fucilazioni, anche di parenti di essi, stato d’assedio di
interi paesi.
Alcuni comandanti piemontesi emanarono, fra il 1861 e il 1862, bandi
che i nazisti non emanarono neppure per reprimere i sionisti.
Naturalmente i piemontesi non erano italiani e si sentivano in
diritto, contro tutte le convenzioni, e il diritto internazionale, di
fare quel che volevano, di poter fucilare chiunque trasgrediva i
molteplici divieti.
Generali, colonnelli, maggiori e ufficiali che parteciparono a quelle repressioni dovevano sentirsi, in cuor loro, dei codardi.
Diciamo semplicemente che erano dei criminali di guerra tanto è vero
che ancora oggi, dopo 150 anni, nelle scuole non s’insegni la vera
storia del Risorgimento piemontese che per il Sud, in realtà , fu vera colonizzazione e sterminio di massa.