mercoledì 13 aprile 2016

DA ZENOBIA ALLE FORZE TIGRE




Palmira: implicazioni geo-politiche


a789e503-5073-4048-91a2-d191a6fac8cc

(Angelo Gambella) – Il 24 marzo le Forze Tigre dell’esercito siriano, dopo aver liberato la maggior parte dei rilievi sovrastanti Palmira e l’area collinare delle cave, dalle quali i palmireni ricavavano la pietra per costruire la loro città, irrompono nella piana dell’area archeologica.
Il giorno successivo è preso d’assalto il castello medievale arabo sull’ultima collina rimasta all’ISIS, e finalmente, dopo altri due giorni e scontri tra le strade, la città moderna (Tadmur) viene completamente liberata. L’annuncio ufficiale dell’esercito trova preparati i media occidentali che battono la notizia della liberazione di Palmira: è il 27 marzo.
I russi avevano già ampiamente coperto l’informazione della riconquista dell’antica città, loro che con grande efficacia dall’aria e più o meno segretamente da terra con gli Specnaz, avevano contributo in maniera determinante alla liberazione della Perla del Deserto.
Irina Bokova, direttrice dell’Unesco, di nazionalità bulgara, è forse la prima personalità ad intervenire pubblicamente: il 24 marzo, mentre sto seguendo (per un’agenzia indipendente specializzata in beni culturali) ora per ora la liberazione di Palmira, ormai sicura ma ancora da venire, già campeggia con il suo tweet: “I welcome the liberation of #Palmyra. Let’s #unite4heritage and human values against violence and hatred”.
I primi filmati e le fotografie del sito storico sono incoraggianti: Palmira è stata sì violentata, ma buona parte dell’area è intatta, il teatro romano emerge nella sua monumentalità tra i colori del deserto. Non solo: anche gli antichi monumenti rasi al suolo possono essere restaurati, certo con fatica e in tempi non rapidissimi, ma gli archeologi (e gli italiani primi su tutti) sono in grado di cimentarsi nell’impresa.
Il 27 marzo, dopo che l’Unesco ha già salutato da giorni la liberazione di Palmira, iniziano ad arrivare al governo siriano di Bashar Al Assad, i complimenti entusiasti dei governi di Russia, Iran e di altri paesi alleati. Che differenza con il filmato che ritrae il portavoce del governo americano in imbarazzo di fronte ai cronisti che gli chiedevano un commento su Palmira!
Quello stesso giorno Vladimir Putin e Irina Bokova parlano al telefono e, attraverso il comunicato ufficiale in inglese, emerge l’assicurazione del Presidente al Direttore generale “of the wide-ranging experience of Russian experts from The Heritage Museum in St. Petersburg, including from work under UNESCO’s leadership on the preservation and reconstruction of the cultural heritage of Syria.” Putin si fa forte dell’esperienza dell’Heritage di San Pietroburgo che possiede, nella propria collezione, reperti originali di Palmira, per offrire tutta la collaborazione per la ricostruzione del patrimonio culturale siriano.
I rapporti dell’Italia, come il resto dell’Unione Europea, con la Siria sono freddi: è dal 2012 che l’Italia ha chiuso l’ambasciata a Damasco (“per il deterioramento della situazione di sicurezza nel paese”, si legge sul sito). Ma la liberazione di Palmira è salutata con favore sia dal ministro dei Beni culturali Dario Franceschini, e, in maniera politicamente più rilevante, da Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri: “#Palmira finalmente liberata, ricordiamo Khaled Assad, il suo custode ucciso dai terroristi. #Unite4Heritage”; in questo tweet del 28 marzo, si ripete, come nel messaggio di quattro giorni prima della direttrice Unesco, l’etichetta “#Unite4Heritage” fatta propria dall’iniziativa dei caschi blu della cultura, promossa dall’Italia all’indomani dell’occupazione di Palmira.
Ed è un’iniziativa che l’Italia aveva concretizzato il 16 febbraio, quando, sull’esperienza del Nucleo tutela dei beni culturali dell’arma dei Carabinieri e con la collaborazione di archeologi e specialisti italiani, viene ufficialmente fondata l’unità dei Caschi blu per la cultura (primi 30 carabinieri e 30 specialisti). Già il 27 marzo Franceschini dichiara alla stampa: “Se Palmira sarà la prima occasione in cui verremo chiamati lo decideranno l’Unesco e la comunità internazionale, che devono anche stabilire tempi, modalità e coinvolgimento di uno o più paesi. Noi comunque siamo pronti.
Le parole di Gentiloni sono di apertura: “L’Italia è pronta, aspettiamo una chiamata. Una chiamata di pace, di cultura e collaborazione”. Significativa differenza rispetto al silenzio delle altre cancellerie europee, con poche eccezioni.
Ma è la Russia di Putin, più di qualunque altro paese (Siria compresa) a cavalcare l’onda mediatica della riconquista di Palmira e ad impossessarsi del controllo della situazione. Subito Putin offre ad Assad la disponibilità degli artificieri russi per bonificare l’area archeologica ed ordina l’invio immediato degli stessi. Con una mossa tipica della sua iniziativa politica, Putin invita anche i paesi della coalizione a guida USA a partecipare allo sminamento, ma nessuno gli risponde.
Tutta Palmira è disseminata di ordigni esplosivi improvvisati, l’area degli scavi ne è oltremodo piena; si dirà poi che il dispositivo di guerra elettronica russa ha reso inattivi gli ordigni comandati a distanza. Dopo pochissimi giorni gli artificieri russi sono a Palmira ed iniziano la bonifica dell’area. Il 2 aprile sono già 1000 gli ordigni rimossi, resi inoffensivi o fatti brillare. Non passa giorno che il ministero della difesa russo non emani un breve resoconto del numero di ettari bonificati e della quantità di ordigni neutralizzati.
La bandiera russa e quella dell’unità impegnata nelle operazioni campeggiano sulle rovine; gli specialisti russi sono fotografati nell’atto di neutralizzare gli ordigni, nello storico scenario palmireno con il castello arabo o le colonne romane sullo sfondo.
L’8 ottobre dalla base di Hmeimim presso Latakia decollano elicotteri da trasporto militare scortati da Mi-24, elicotteri d’assalto. I russi hanno organizzato una visita guidata per la stampa a Palmira: ci sono giornalisti da Italia, Germania, Belgio, Serbia, Cina ed altri per 11 diverse nazionalità. Ancora una volta non si vede alcun americano.
Il Direttore delle antichità siriane si offre alle telecamere, anche a quelle della nostra TV di stato: Palmira è danneggiata, ma all’80% integra e sarà riportata allo stato precedente. Intanto, il governo siriano ha iniziato un collegamento bus per il rientro dei palmireni: questo sabato i primi 2.000 sono rientrati nelle loro case. Prima della guerra Palmira contava 45.000 residenti, dediti principalmente all’estrazione del petrolio nelle vicinanze, e all’attività turistica nella città-oasi del deserto.
Il futuro rilancio del turismo è vitale per l’economia del posto.
La Siria non è sola: l’alleato Iran, forte di tradizione archeologica, si offre alle autorità di Damasco per contribuire al restauro. La Russia, intanto, manda inviti alla collaborazione archeologica pure a Belgrado e ad altri vecchi amici, come se Palmira fosse non già siriana, ma quella che in effetti è “Patrimonio dell’Umanità”, anche un po’ russa.
Dall’Italia si fa sentire la voce di Paolo Matthiae, professore emerito dell’Università La Sapienza di Roma, che definisce “Palmira la città martire del patrimonio culturale mondiale”. Le continue dichiarazioni degli specialisti italiani, che vantano ampia esperienza negli scavi siriani, confermano il nostro interesse per il tesoro storico di Palmira e, se un prossimo accordo tra Unesco e Siria sarà siglato, come è molto probabile, c’è da ritenere che l’Italia manterrà la sua promessa e farà egregiamente la sua parte.
Nel restauro di Palmira si sta giocando una partita d’importanza geo-politica non secondaria, che vede attualmente la Russia in posizione di assoluta forza, e gli USA del tutto tagliati fuori. L’Italia, invece, quasi scalpita per partecipare, pronta a mostrarsi ancora una volta al mondo in uno dei campi in cui eccelle.

deca





Zenobia di Palmira, la regina

che fece tremare Roma


A dimostrare che, come tutti i fanatici, quelli dell’ISIS non capiscono nulla, basta questo fatto: che fra tutte le città storiche si intigniscono a voler distruggere Palmira.
Palmira, capite?
Che se avessero un po’ di sale in zucca o qualche blando rudimento di antichità, dovrebbe invece essere per loro un simbolo, un punto fermo nella propaganda antioccidentale: Palmira, la città che per poco non diventò una nuova Roma, e di Roma fu, per qualche anno, la rivale.
Palmira, la regina del deserto, il punto di arrivo e di snodo di infinite carovane. Per le sue piazze e nel suo suk si incrociavano le spezie e le sete dell’Oriente lontano, portate a dorso di cammello attraverso le sabbie. Nei suoi vicoli e nei suoi templi si intersecavano genti di ogni origine, parlanti le lingue più diverse: arabo, persiano, greco, latino.
Mercanti, intellettuali, mercenari, soldati. E poi ancora carovanieri, sacerdoti, gran dame, beduini, faccendieri e sfaccendati di ogni risma. Era un meraviglioso frullato di ogni cosa, Palmira, o forse era solo la più perfetta summa di quello che il mondo antico sapeva generare: un intarsio vivo e vivace di mille e mille destini e popoli.
A governarla un sovrano, che è di origini arabe, ma fedele alleato dei Romani. Si chiama Lucio Settimio Odenato, e nei turbolenti anni in cui l’impero è in grande difficoltà salva i Romani, combattendo e tenendo sotto controllo le frontiere con l’impero persiano. Ma non sarà lui a rendere famosa per sempre Palmira, bensì la sua seconda moglie, una ragazzetta bellissima, figlia di un capotribù locale: Zenobia.
Quando arriva a corte Zenobia non è nessuno, o quasi. Il padre, un beduino del deserto, è morto assassinato in qualche faida che non capiamo bene. Lei viene data sposa al re forse per pregressi accordi fra famiglie. E’ giovane e molto bella. Le fonti la descrivono come scura di carnagione e con grandi occhi neri in grado di sedurre interi popoli con un solo sguardo. Ma non è il corpo quello che colpisce nella ragazza, bensì il suo spirito indomito. Cresciuta fra i nomadi, è abituata a cavalcare e combattere come un beduino: è una volpe del deserto, secoli prima di Rommel. 
Però non è una zotica incolta che conosce solo cammelli e piste carovaniere: parla il dialetto della sua tribù ma anche l’egiziano e il greco, e il latino. Si vanta di discendere da un’altra grande regina del passato, Cleopatra. Come non è chiaro, e probabilmente la storia è una bugia propagandistica che s’inventa lei. Ma se non ne ha il sangue, di Cleopatra Zenobia ha certamente l’animo, e sicuramente la testa.
Quando arriva a corte, nessuno scommetterebbe un baiocco su di lei. E’ la seconda moglie di un re che ha già due figli maschi di primo letto e quindi sicuri eredi: il destino sembra riservarle un futuro nell’ombra a partorire inutili cadetti. Ma Zenobia è Zenobia, e l’ombra non fa per lei. Si circonda di una corte vivace di intellettuali, che attira da Atene e dalle altre città del Medioriente romano. Ma il predominio culturale non le basta. Non appena partorisce un figlio maschio, Vallodato, vuole garantirgli anche il trono. E se per farlo deve eliminare marito e figliastri pazienza, si vede che il Fato prescrive così.
Difatti, quando il piccolo Vallodato non ha ancora un anno, diviene orfano di padre e privo di fratelli: un cugino, tal Meonio, li uccide tutti quanti, nel corso di una festa di famiglia. Non è certo che ad armarlo sia Zenobia, ma è molto probabile, e lei si ritrova in men che non si dica vedova e reggente di uno Stato ricco e fondamentale nella scacchiera del Mediterraneo.
L’impero romano c’è ancora ed è potente, ma è già acciaccato. Gli imperatori corrono ai confini dell’Est per fermare o almeno arginare le prepotenze dei Goti. E poi sono imperatori che muoiono come mosche: non fanno tempo a salire sul trono che già scendono nella tomba. L’Occidente, anche se non se ne rende conto, ha già imboccato la china discendente. Ma l’Oriente no. L’Oriente è ricco, ed è ancora sicuro: è come un frutto maturo che aspetta di essere colto. E Zenobia allunga la mano per spiccarlo dal ramo e mordere la bella e succosa mela che il destino le porge.
Conquista. Non solo gli uomini, ma le città e gli Stati. Cilicia, Siria e poi Bitinia ed infine l’Egitto. Novella Cleopatra, ricostruisce quel nucleo di territori che la sua presunta ava si era fatta donare da Antonio, e che forma il regno indipendente di Palmira. I suoi due consiglieri fidati sono il generale Zabdas, infaticabile cavaliere che percorre le strade d’Oriente a capo del suo esercito, e il raffinato retore Cassio Longino, già maestro ad Atene e ora trapiantato nella perla del deserto.
E lei, la regina delle dune, per un attimo prova l’ebrezza di essere davvero la padrona del mondo. Roma è un puntino lontano, una città oscura e squassata dalle lotte interne del Senato e da imperatori ignavi o sventurati, e Palmira invece è il futuro, il faro che riluce.
Sembra che il destino di Roma sia segnato. E invece no. Con uno di quei colpi di scena che la Storia talvolta riserva, le carte vengono scombinate e il tavolo ribaltato all’improvviso. Sulla scena arriva un imprevisto: si chiama Aureliano.
Sono simili, in fondo, i due. La ragazzina venuta su fra i beduini del deserto, scattante ed assetata di vita, che ha scalato la corte ed è diventata regina, e il ragazzetto uscito dalle selve dei Balcani, che si è arrampicato per tutti i gradi dell’esercito romano, fino a diventare imperatore. Ragionano nello stesso modo, che è quello di chi ha poco alle spalle e quello che ha lo ha conquistato pezzo a pezzo. 
Sono duri, in primis con se stessi, spregiudicati quando serve, poco avvezzi all’autocommiserazione o ai rimorsi. Sono gente dal pensiero chiaro e finalizzato all’obbiettivo da raggiungere: gente che taglia e sfronda ciò che non è necessario, e non si perde in chiacchiere. Sono dei conquistatori, sono dei re.
Per questo si capiscono, e in fondo si rispettano. La loro lotta è senza esclusioni di colpi, perché entrambi non sanno accettare nulla di meno che una vittoria. Zenobia perde, alla fine, ma da regina. Per domare Palmira, Aureliano, il grande condottiero, ha dovuto sputare sangue e impegnarsi allo spasimo. Forse per questo, quando finalmente cattura la regina, non si comporta come se avesse di fronte una donna, o uno sconfitto, ma un suo pari.
Viene presa prigioniera, ma ha salva la vita. I suoi sodali, il generale Zabdas e Cassio Longino pagano con la morte la ribellione a Roma, lei no. Aureliano la porta a Roma e la espone, legata con catene d’oro al seguito del suo carro trionfale, ma non la uccide. Forse stregato dal suo fascino, o più probabilmente colpito da quel carattere così indomito e simile al suo, le dona una villa a Tivoli, dove Zenobia, dicono alcune fonti, invecchierà circondata da filosofi e sposata con un ricco senatore romano.
La donna che ha fatto tremare Roma viene da Roma adottata come figlia, e alcune epigrafi ci parlano di sue discenti, a buon diritto divenute parte dell’aristocrazia dell’urbe. Perché la grandezza degli Stati e dei regimi si misura in questo: nella capacità di rispettare i nemici e alla lunga assorbirli e farsi assorbire, mischiando culture e tradizioni per creare il nuovo, anziché arroccarsi nella tradizione per difendere una pretesa e stolida purezza.
Zenobia, la figlia del deserto che rese grande Palmira, questo lo sapeva.
Difatti riuscì a creare un suo impero e poi persino da sconfitta ad integrarsi in quello romano. Quelli dell’ISIS sanno solo sterminare quelli che credono loro nemici e martellare opere d’arte senza creare nulla.
Ecco, la differenza è tutta qui. Ma è abissale.

deca


Nessun commento:

Posta un commento