Il benessere nel Regno delle Due Sicilie
di Fara Misuraca e Alfonso Grasso
A più di
60 anni dalla caduta della monarchia sabauda e dalla nascita della
Repubblica Italiana, la storiografia tende ancora oggi a sottovalutare
un aspetto essenziale: il Regno delle Due Sicilie ha visto il suo
tramonto perché oggettivamente rappresentava un elemento storicamente e
politicamente superato, e non perché fosse un aggregato di barbari o di
cafoni, degno di essere colonizzato e civilizzato da popolazioni
portatrici di alte virtù civili, morali e militari.
Riscrivere
la storia è un esercizio che viene fatto solo quando c’è di mezzo un
interesse politico e economico. Oggi in pochi pensano che ne valga la
pena per l’Antico Regno, essendo gli interessi della maggioranza rivolti
a tutt’altro e, soprattutto, essendo questi interessi ancora
concentrati in quella parte del Paese che abilmente seppe volgere a suo
vantaggio la crisi degli Stati indipendenti preunitari.
Inoltre, chi si
prende la briga di riscrivere, more solito, riscrive a sua volta a
proprio uso e consumo, tralasciando quella che dovrebbe essere la
caratteristica principale della Storia: l’obiettività.
In
questa sede quindi ci piace ricordare che il Regno delle Due Sicilie
non era uno staterello nato come contropartita ad una fuggevole
alleanza, bensì lo Stato italiano preunitario più antico e più esteso
territorialmente, comprendendo tutto il Sud continentale d’Italia: Campania, Calabrie, Puglie, Abruzzi, Molise, la parte meridionale del Lazio e la Sicilia [1].
La sua situazione economica era, rispetto a quella dei molti altri
stati italici, una delle più floride.
Lo studio, non preconcetto, della
sua storia ci trasmette l’immagine di un Regno e di una società non
sradicati dalle correnti del pensiero illuministico europeo,
di una amministrazione che cerca, a dispetto del ribellismo popolare e
tra gli sconvolgimenti sollevati dalla rivoluzione francese e dalla
occupazione napoleonica, di spezzare i tradizionali e duri a morire
rapporti feudali e di avviare una industrializzazione, in alcuni settori
chiave come la siderurgia, leminiere, l’enologia, la navigazione, ecc. (cfr: I records del Regno delle due Sicilie).
È
necessario però tenere presente che stiamo pur sempre parlando di uno
stato assoluto, e che la ricchezza, come il potere, era concentrata in
poche mani: quelle del sovrano e dell’aristocrazia. Scarsa era la
presenza della borghesia, praticamente ininfluente la presenza operaia,
non organizzata e priva di una coscienza di classe. Con Carlo di Borbone ed il ritorno alla indipendenza dalla Spagna, si avvia un processo di modernizzazione della
macchina burocratica con nuovi codici, leggi e regolamenti.
Si avvia la
sprovincializzazione della cultura meridionale. Si cerca anche di fare
sorgere una coscienza “nazionale”, che tuttavia cozza contro l’atavica contrapposizione tra Napoli e Sicilia, aggravata ancora di più dalle differenti vicende vissute dai due Regni tra il 1799 e il 1815 (La Repubblica Napoletana, il periodo napoleonico, il protezionismo inglese).
Da
Carlo III in poi assistiamo allo sviluppo di industrie a carattere
artistico, come quella della porcellana, della ceramica e della seta di
pregio. Tra la fine del ‘700 e i primi decenni dell’800, furono
costituite le prime società per il funzionamento della ferrovia, della
navigazione, dell’illuminazione a gas, per la tessitura.
Fu favorito
l’allevamento degli ovini, al fine di incrementare la produzione e
l’arte della lana, contemporaneamente a quella del lino e del cotone.
Molto importante divenne anche la lavorazione del ferro, con la
creazione di industrie metallurgiche e meccaniche.
Ferdinando II fece
impiantare nella città di Napoli un arsenale, un cantiere navale, e
delle fabbriche di armi che diedero lavoro a molti napoletani,
consentendogli anche di specializzarsi e di venire a conoscenza di
alcune tecniche di lavorazione fondamentali.
Fu potenziata la
lavorazione delle pelli, e per alcuni manufatti, come ad esempio i
guanti, si raggiunsero livelli d’eccellenza, favorendo il Mady in Naples
nei commerci con l’estero. Sorsero fabbriche per la lavorazione dei
vetri e del cristallo, i cui prodotti venivano inviati anche nelle
Americhe (cfr: elenco monografie in calce).
Tutto
ciò, se ebbe un peso nell’arricchire l’Erario, certamente non influì
sulla gran massa della popolazione che rimaneva rurale e in una
condizione semifeudale. Inoltre, non dobbiamo dimenticare che il
ministro De Medici prima e Ferdinando II poi, hanno avuto il loro bel da
fare per cercare di liberarsi dall’influenza inglese (E. Pontieri, Il riformismo borbonico nella Sicilia del Sette e dell’Ottocento,
Roma 1945).
Il Regno si trovò spesso in difficoltà nella grande
politica internazionale del tempo, in quanto era veramente difficile
acquisire una posizione autonoma nell’ambito dei rapporti tra le varie
potenze. Basti pensare ad esempio alla vicenda del “privilegio di
bandiera” di cui godevano Inghilterra, Francia e Spagna: Murat lo
aveva abrogato, ma poi il Congresso di Vienna si affrettò a
ripristinarlo. Bisognerà aspettare il 1845 perché il Regno delle Due
Sicilie potesse vedere accolto, nei suoi rapporti commerciali con le
altre potenze europee, il cosiddetto “principio di reciprocità”.
E non
dimentichiamo neppure la umiliazione che Ferdinando II dovette subire in
seguito all’affaire Taix-Aycard per il commercio degli zolfi.
Episodi di questo genere non impedirono tuttavia al Regno di svolgere i
suoi traffici commerciali, in discreta autonomia, e che al suo interno
sorgessero numeroso fabbriche ed imprese. Il sito ha dedicato a tale
sviluppo numerose pagine.
Qui basti ricordare: l’industria
metalmeccanica e siderurgica, con circa 100 opifici metalmeccanici, di
cui 21 con più di 100 addetti, e l’eccellenza costituita dallo
stabilimento di Stato di Pietrarsa; la Cantieristica navale (Castellammare di Stabia,
con 1.800 operai, l’Arsenale di Napoli con annesso bacino in muratura, i
Florio con la loro fonderia i loro cantieri e le loro cantine a
Palermo); l’industria tessile, capillarmente diffusa in tutto il Regno;
le circa duecento cartiere; i pastifici alimentari; le fabbriche di
cristalli e ceramiche, tra cui la rinomata Capodimonte.
È
possibile analizzare la situazione finanziaria, di bilancio e fiscale
del Regno con consapevolezza che le vicende economiche e politiche non
sono mai indipendenti le une dalle altre, ma si intrecciano e vanno a
formare un complesso sistema, in cui l'evidenza delle cose è solo la
punta dell'iceberg.
La
documentazione che va dal 1848 al 1859 fornisce alcuni spunti per
introdurre la riflessione. Nel 1848 il Regno fu colpito dalla violenza
dei moti rivoluzionari,
sedati nel 1849. Si determinò una contrazione degli introiti effettivi
rispetto a quelli preventivati, e parallelamente un forte aumento delle
spese, a testimonianza del processo di ricostruzione e "normalizzazione"
seguito alla restaurazione.
Variabilità che potrebbe essere stata
causata anche, specialmente per i dati degli ultimi anni, dalla
crescente ostilità manifestata dal Regno Piemontese, che conduceva la
politica di annessione degli stati sparsi sulla penisola italiana, e
dalla continua e persistente instabilità della Sicilia, riconducibile
alle istanze di autonomia politica che da lì provenivano.
Una
interpretazione in tale senso ci viene data dallo scritto di Savarese, “Le
Finanze Napoletane e le Finanze Piemontesi dal 1848 al 1860”: La storia
delle nostre finanze è la storia delle nostre rivoluzioni, e delle
restaurazioni che a quelle si sono succedute.
La relazione Sacchi
Subito
dopo l'annessione del 1861 delle Due Sicilie al Piemonte, un ministro
sabaudo, Vittorio Sacchi, titolare del Ministero delle Finanze in Napoli
dal 1° aprile al 31 ottobre 1861, fece circolare un resoconto in cui si
sosteneva che nel 1860 l'ex Regno di Napoli avevano presentato un
disavanzo di 62 milioni di ducati, dipingendo l'Antico Regno come
gravato di debiti, destinato al fallimento, se non fosse intervenuta la
"pietosa mano piemontese".
Un funzionario napoletano, Giacomo Savarese, si sentì in dovere di controbattere, dati alla mano e per iscritto.
La replica del Savarese
La
sua prima considerazione è di natura fiscale: con l’ascesa al trono di
Carlo III nel 1734, il governo Tanucci avviò una politica tesa
all’abbattimento della pressione fiscale e del debito pubblico. Questa
politica fu scrupolosamente seguita dai suoi successori, ed identificata
quale strumento di stabilità dello Stato, che aveva quali principi
basilari il rispetto della proprietà privata, la solidarietà sociale e
l’amicizia con gli altri Paesi.
Il governo del ministro de’Medici
continuò la politica del Tanucci per la quale "le risorse finanziarie non vanno ricercate nell’indebitamento, né in nuove imposte, ma esclusivamente nell’ordine e nella
, perché veramente il miglior governo è quello che costa meno".
L’imposizione diretta fu fissata come segue (Decreto del 10 agosto 1815):
I
tributi diretti ed indiretti non furono mai più aumentati né in numero
né in aliquota, tranne in circostanze particolarissime e per tempi
limitati, eppure le
entrate passarono dai 16 milioni di ducati del 1815, ai 30 milioni del
1859, a dimostrazione della crescita generale di quella fiorente
economia.
Le entrate pubbliche rimasero strettamente correlate alla ricchezza generale: "entrambi
questi patrimoni sono soggetti alle medesime leggi; crescono e
decrescono insieme, ma la proporzione rimane sempre la stessa. Or se vi è
un paese dove questa regola sia stata rigorosamente applicata, e fino
alla superstizione, noi non temiamo di affermare che questo paese è
stato il Regno di Napoli".
La
nota rivolta carbonara del 1820, cui seguì l’esperienza costituzionale,
la sommossa siciliana, quindi l’intervento e l’occupazione austriaca,
costò allo Stato 80 milioni di ducati e gli interessi del debito
pubblico consolidato, che nel 1820 erano di 1,42 milioni di ducati
annui, passarono a 5,19 milioni di ducati.
Ma non si ricorse a nuove
tasse, bensì le risorse furono cercate nel risparmio. Rivoluzionario per
l’epoca, fu il nuovo regolamento del 15 dicembre 1823, con cui fu
introdotta la Tesoreria Unica, sottoponendo le spese allo stretto
controllo del Ministro delle Finanze. Inoltre le dogane e la vendita dei
generi di monopolio furono dati in concessione (regie interessate), con
un aumento del relativo introito da 4,65 milioni di ducati annui a 5,83
milioni.
Nel 1830 Ferdinando II, re a venti anni, promulgò nuove misure a sostegno dell’economia.
Il de’Medici era morto e fu nominato Ministro delle Finanze il marchese
d’Andrea. In pochi anni gli interessi sul debito pubblico si ridussero a
4,15 milioni di ducati; furono costruiti le prime vie ferrate; si
gettarono ponti in ferro sui fiumi; la Marina Militare fu dotata di
undici navi a vapore; l’industria progredì ed il bilancio offriva un
avanzo di cassa.
Gli
avvenimenti degli anni 1848-49, l’intervento a fianco del Piemonte e la
composizione della nuova rivolta siciliana, gravarono l’erario per
oltre 30 milioni: gli interessi sul debito pubblico passarono da 4,15
milioni a 5,19 milioni e si ebbe un deficit di cassa di ben 15,73
milioni di ducati.
Ma anche in tale occasione non si fece ricorso a
nuove tasse: il fabbisogno fu colmato con l’emissione di una rendita che
fruttò 11,12 milioni, e con la riscossione di crediti per 8,42 milioni.
LEGGETE ANCHE :
http://decamentelibera.blogspot.it/2014/06/zolfo-oro-di-lucifero.html
http://decamentelibera.blogspot.it/2014/06/prima-nave-vapore-del-mediterraneo.html
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