LA MODIFICAZIONE DELL’AMBIENTE
E DEL CLIMA A FINI MILITARI
lunedì, 20 gennaio 2014
NEL 2003 un documento ‘segreto’ del Pentagono riempì le prime
pagine dei giornali di tutto il mondo.
Il Pentagono disegnò future
guerre, caos e distruzione a causa del cambiamento climatico.
Il
ten. col. Carlo Stracquadaneo, all’epoca anche consigliere giuridico
del Ministero della Difesa,prese spunto da questo dossier e scrisse un
articolo con dati e riflessioni, interessanti da leggere anche a
distanza di dieci anni.
Climi di guerra (parte I)
di Carlo Stracquadaneo – tratto da www.AnalisiDifesa.it
6 Giugno 2004 – Fra tre anni, nel 2007, una tempesta
particolarmente violenta farà scatenare l’oceano sulle costedell’Olanda.
Una serie di città come L’Aia diventeranno invivibili; un’ondata di
disperati senza tetto si riverserà sullefrontiere d’Italia e Spagna che,
a loro volta, subiranno improvvisi e intermittenti raffreddamenti,
mentre il clima dell’Europa nord-occidentale sarà secco, gelido e
ventoso come quello siberiano. La pianura padana assomiglierà a una
steppa, partirà una corsa al riarmo nucleare in preparazione di
un’inevitabile apocalisse, chiusure di frontiere e guerre scatenate per
mancanza d’acqua, nel 2022 Germania e Francia entreranno in conflitto
per lo sfruttamento del Reno e l’Unione Europea collasserà.
Questa non è la sceneggiatura in chiave europea del film The Day
After Tomorrow di Roland Emmerich, né un’apocalittica previsione di
ambientalisti, bensì gli esiti di un rapporto di 22 pagine, dei
climatologi Peter Schwartz e Doug Randall, redatto su commissione di
Andrew Marshall, che al Pentagono dirige l’ufficio Net Assesment, un
think-tank che redige rapporti segreti sugli scenari futuribili per i
governo americano.
“An Abrupt Change and Its Implications for United States National Security” (“Un violento cambiamento climatico e le sue implicazioni per la sicurezza degli Stati Uniti”. Sottotitolo: “Immaginare l’impensabile”) questa è l’etichetta sul dossier di Schwartz e Randall, redatto nell’ottobre 2003. Il documento avrebbe dovuto rimanere segreto e invece dai cassetti del Pentagono è scivolato sulle pagine di Fortune e dell’Observer per poi essere ripreso dai giornali di tutto il mondo con un clamore giustificato dall’autorevolezza del destinatario, la cui commessa è costata 100mila dollari.
“An Abrupt Change and Its Implications for United States National Security” (“Un violento cambiamento climatico e le sue implicazioni per la sicurezza degli Stati Uniti”. Sottotitolo: “Immaginare l’impensabile”) questa è l’etichetta sul dossier di Schwartz e Randall, redatto nell’ottobre 2003. Il documento avrebbe dovuto rimanere segreto e invece dai cassetti del Pentagono è scivolato sulle pagine di Fortune e dell’Observer per poi essere ripreso dai giornali di tutto il mondo con un clamore giustificato dall’autorevolezza del destinatario, la cui commessa è costata 100mila dollari.
Guerra fredda, clima rovente
Non è la prima volta che in tema di mutamenti climatici si evocano gli scenari più agghiaccianti.
All’inizio degli anni settanta, la stampa scientifica internazionale dedicò grandi spazi al progetto poco conosciuto di “immissione” e “interdizione” di talune azioni in ambiente meteorologico e geofisico a scopo militare.
Il giornale americano “Christian Science Monitor” scrisse, nel 1973, che “il Pentagono assegna annualmente più di due milioni di dollari per la realizzazione di una nuova arma che permetterebbe di creare artificialmente inondazioni, siccità, maremoti, uragani e modifiche dello strato dell’ozono atmosferico”. Il Senato americano, l’11 luglio 1973, aveva infatti autorizzato il Governo a procedere nella realizzazione di tale progetto, anche con riferimento all’interdizione dagli effetti passivi degli eventi ambientali ed atmosferici.
La prevenzione di azioni destinate a modificare l’ambiente a scopi militari, fu oggetto di un approfondito esame nel vertice di Mosca tra Nixon e Breznev, nel luglio 1974, che diede luogo alla “Dichiarazione relativa all’ambiente naturale e al suo utilizzo per scopi militari”.
Poco dopo, gli organi centrali della stampa sovietica denunciavano i danni eventuali della guerra meteorologica e geofisica, così come l’orrore derivante dall’utilizzazione di defolianti e altri mezzi idonei ad incendiare le foreste e dava la primizia di una proposta sovietica tendente a mettere all’Ordine del giorno dell’Assemblea Generale dell’Onu un’interdizione conglobante tutte le azioni (militari o altre) sull’ambiente naturale, che non siano compatibili con gli interessi della scienza rivolta unicamente al benessere dell’uomo.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite giudicò indispensabile raccomandare al Comitato di Ginevra per il disarmo, di lavorare per un testo concertato, atto a interdire tutte le azioni condotte sull’ambiente naturale e sul clima, per scopi militari o altro.
Nel giugno del 1975 furono tenuti a Ginevra i negoziati preliminari relativi all’eventuale interdizione della guerra meteorologica. I negoziati avvennero “a porte chiuse” e nessuna notizia trapelò oltre al fatto che le delegazioni erano guidate da T.A. Davies, direttore aggiunto dell’Agenzia americana per il disarmo ed il controllo degli armamenti (ACDA) e dall’ accademico sovietico E.K. Fedorov, noto meteorologo.
Il mese precedente l’Unione Sovietica aveva, peraltro, ottenuto che l’Assemblea Mondiale della Sanità, riunita a Ginevra, stigmatizzasse l’eventuale ricorso ad armi meteorologiche.
Nell’ agosto 1975, in seno ad una Conferenza ufficialmente consacrata ai problemi ambientali, si parlò così per la prima volta di “guerra meteorologica”. All’uscita, il rappresentante americano, l’ambasciatore Joseph Marin, e quello sovietico, l’ambasciatore Alexei Rochtchine, si rifiutarono di fare qualsiasi dichiarazione in merito, limitandosi ad affermare sorridendo che “tutto era andato per il meglio”.
Il Congresso meteorologico aveva intanto deciso di impiantare un registro internazionale di tutte le attività collegate alla modificazione artificiale del clima, di cui venne data ampia descrizione, ufficialmente per la prima volta, in occasione della conferenza dell’Associazione internazionale per la meteorologia e fisica dell’atmosfera, tenutasi nel 1973 a Tashkent, allora in Unione Sovietica.
Il divieto di utilizzare tecniche di modificazione dell’ambiente a fini militari o per ogni altro fine ostile fu quindi oggetto, nel 1976, di un’ apposita dichiarazione, adottata con la Ris. 32/76 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Conferenza del Comitato sul disarmo, tenutasi a Ginevra il 18 maggio 1977, diede origine alla Convenzione sulla proibizione dell’uso militare o di qualsiasi altro uso ostile delle tecniche di modificazione dell’ambiente, Convenzione nota anche con il sinonimo “ENMOD” (Envitoment Modification), ratificata dagli Stati Uniti nel 1980.
L’art. 1 della Convenzione recita: “Ciascun Paese dell’ONU si impegna a non impiegare, per uso militare o qualsiasi altro uso ostile, quelle tecniche di modifica dell’ambiente naturale che abbiano ampi, duraturi e rovinosi effetti quali mezzi di distruzione e che danneggino ogni altro Stato membro. Ciascun Paese membro si impegna a non assistere, incoraggiare o indurre alcun altro Paese ad intraprendere attività in contrasto con quanto previsto da questo articolo”.
Il ruolo di iniziatore delle azioni dell’uomo nel campo della formazione, prevenzione e dispersione delle nebbie, delle precipitazioni provocate (pioggia e neve) e in certa misura dei lampi, spetta al Naval Weapon Centre (NWC) della Marina statunitense, per lungo tempo leader mondiale in questo campo e oggi affiancato dall’Air Force Combat Climatology Center di Ashville (North Carolina).
Un certo numero di operazioni relative a piogge provocate, sono state effettuate con successo, all’estero dal NWC, su richiesta degli Stati interessati. Fra queste, quelle avvenute in India nel 1967, nelle Filippine nel 1969 (operazioni ripetute da allora ogni anno dagli stessi filippini), a Okinawa nel 1971 e nelle Azzorre nel 1972.
All’inizio degli anni settanta, la stampa scientifica internazionale dedicò grandi spazi al progetto poco conosciuto di “immissione” e “interdizione” di talune azioni in ambiente meteorologico e geofisico a scopo militare.
Il giornale americano “Christian Science Monitor” scrisse, nel 1973, che “il Pentagono assegna annualmente più di due milioni di dollari per la realizzazione di una nuova arma che permetterebbe di creare artificialmente inondazioni, siccità, maremoti, uragani e modifiche dello strato dell’ozono atmosferico”. Il Senato americano, l’11 luglio 1973, aveva infatti autorizzato il Governo a procedere nella realizzazione di tale progetto, anche con riferimento all’interdizione dagli effetti passivi degli eventi ambientali ed atmosferici.
La prevenzione di azioni destinate a modificare l’ambiente a scopi militari, fu oggetto di un approfondito esame nel vertice di Mosca tra Nixon e Breznev, nel luglio 1974, che diede luogo alla “Dichiarazione relativa all’ambiente naturale e al suo utilizzo per scopi militari”.
Poco dopo, gli organi centrali della stampa sovietica denunciavano i danni eventuali della guerra meteorologica e geofisica, così come l’orrore derivante dall’utilizzazione di defolianti e altri mezzi idonei ad incendiare le foreste e dava la primizia di una proposta sovietica tendente a mettere all’Ordine del giorno dell’Assemblea Generale dell’Onu un’interdizione conglobante tutte le azioni (militari o altre) sull’ambiente naturale, che non siano compatibili con gli interessi della scienza rivolta unicamente al benessere dell’uomo.
L’Assemblea Generale delle Nazioni Unite giudicò indispensabile raccomandare al Comitato di Ginevra per il disarmo, di lavorare per un testo concertato, atto a interdire tutte le azioni condotte sull’ambiente naturale e sul clima, per scopi militari o altro.
Nel giugno del 1975 furono tenuti a Ginevra i negoziati preliminari relativi all’eventuale interdizione della guerra meteorologica. I negoziati avvennero “a porte chiuse” e nessuna notizia trapelò oltre al fatto che le delegazioni erano guidate da T.A. Davies, direttore aggiunto dell’Agenzia americana per il disarmo ed il controllo degli armamenti (ACDA) e dall’ accademico sovietico E.K. Fedorov, noto meteorologo.
Il mese precedente l’Unione Sovietica aveva, peraltro, ottenuto che l’Assemblea Mondiale della Sanità, riunita a Ginevra, stigmatizzasse l’eventuale ricorso ad armi meteorologiche.
Nell’ agosto 1975, in seno ad una Conferenza ufficialmente consacrata ai problemi ambientali, si parlò così per la prima volta di “guerra meteorologica”. All’uscita, il rappresentante americano, l’ambasciatore Joseph Marin, e quello sovietico, l’ambasciatore Alexei Rochtchine, si rifiutarono di fare qualsiasi dichiarazione in merito, limitandosi ad affermare sorridendo che “tutto era andato per il meglio”.
Il Congresso meteorologico aveva intanto deciso di impiantare un registro internazionale di tutte le attività collegate alla modificazione artificiale del clima, di cui venne data ampia descrizione, ufficialmente per la prima volta, in occasione della conferenza dell’Associazione internazionale per la meteorologia e fisica dell’atmosfera, tenutasi nel 1973 a Tashkent, allora in Unione Sovietica.
Il divieto di utilizzare tecniche di modificazione dell’ambiente a fini militari o per ogni altro fine ostile fu quindi oggetto, nel 1976, di un’ apposita dichiarazione, adottata con la Ris. 32/76 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La Conferenza del Comitato sul disarmo, tenutasi a Ginevra il 18 maggio 1977, diede origine alla Convenzione sulla proibizione dell’uso militare o di qualsiasi altro uso ostile delle tecniche di modificazione dell’ambiente, Convenzione nota anche con il sinonimo “ENMOD” (Envitoment Modification), ratificata dagli Stati Uniti nel 1980.
L’art. 1 della Convenzione recita: “Ciascun Paese dell’ONU si impegna a non impiegare, per uso militare o qualsiasi altro uso ostile, quelle tecniche di modifica dell’ambiente naturale che abbiano ampi, duraturi e rovinosi effetti quali mezzi di distruzione e che danneggino ogni altro Stato membro. Ciascun Paese membro si impegna a non assistere, incoraggiare o indurre alcun altro Paese ad intraprendere attività in contrasto con quanto previsto da questo articolo”.
Il ruolo di iniziatore delle azioni dell’uomo nel campo della formazione, prevenzione e dispersione delle nebbie, delle precipitazioni provocate (pioggia e neve) e in certa misura dei lampi, spetta al Naval Weapon Centre (NWC) della Marina statunitense, per lungo tempo leader mondiale in questo campo e oggi affiancato dall’Air Force Combat Climatology Center di Ashville (North Carolina).
Un certo numero di operazioni relative a piogge provocate, sono state effettuate con successo, all’estero dal NWC, su richiesta degli Stati interessati. Fra queste, quelle avvenute in India nel 1967, nelle Filippine nel 1969 (operazioni ripetute da allora ogni anno dagli stessi filippini), a Okinawa nel 1971 e nelle Azzorre nel 1972.
Fra le ricerche intraprese da organizzazioni militari e civili, vanno annoverate:
- la realizzazione, il dissolvimento e la prevenzione delle nebbie;
- le precipitazioni provocate;
- le tempeste di fulmini;
- l’intervento sullo strato di ozono atmosferico;
- la manipolazione delle onde elettriche celebrali mediante elettricità atmosferica;
- la realizzazione di terremoti e maremoti;
- l’intervento su ghiacciai.
- la realizzazione, il dissolvimento e la prevenzione delle nebbie;
- le precipitazioni provocate;
- le tempeste di fulmini;
- l’intervento sullo strato di ozono atmosferico;
- la manipolazione delle onde elettriche celebrali mediante elettricità atmosferica;
- la realizzazione di terremoti e maremoti;
- l’intervento su ghiacciai.
I modi e i materiali messi a punto sono oggi, per alcuni di essi,
completamente declassificati e impiegati nel mondo intero a fini di
utilizzazione pacifica.
E’ chiaro che le tecniche di modificazione artificiale del clima e del sistema meteorologico potrebbero portare benefici enormi all’umanità, ma è altrettanto chiaro che esistono problemi di diritto internazionale che potrebbero nascere a causa delle potenziali conflittualità nelle operazioni di impiego di queste tecniche e degli eccezionali rischi sull’uso incontrollato di esse come arma bellica, con conseguenze distruttive imprevedibili.
E’ chiaro che le tecniche di modificazione artificiale del clima e del sistema meteorologico potrebbero portare benefici enormi all’umanità, ma è altrettanto chiaro che esistono problemi di diritto internazionale che potrebbero nascere a causa delle potenziali conflittualità nelle operazioni di impiego di queste tecniche e degli eccezionali rischi sull’uso incontrollato di esse come arma bellica, con conseguenze distruttive imprevedibili.
Mezzi di autodistruzione di massa
Esistono dunque possibilità reali di condurre operazioni di guerra
meteorologica. Fino alla metà degli anni 70 le possibilità di azione, in
alcuni casi noti, erano sicure ma limitate. Gli esperimenti che allora
vennero dimostrati non superavano il livello tattico; ma il divieto
relativo all’impiego dell’arma in questione era (ed è) tuttavia
unanimemente richiesto dall’opinione pubblica in ragione di una visione
apocalittica che vede l’uomo manipolare a suo piacimento le condizioni
atmosferiche.
E’ bene soffermarsi sul concetto che le manipolazioni dell’ambiente naturale non riguardano solo il clima e la meteorologia ma bisogna annoverare anche le attività di tipo nucleare sistematiche. Si pensi, per esempio alla Francia, che dal 1975 al 1988 ha condotto più di mille test nucleari nell’Oceano Pacifico, presso l’atollo corallino di Mururoa, con la conseguente contaminazione radioattiva dell’isola e delle acque circostanti, rendendo inabitabile un paradiso dell’ecosistema, in aperta violazione del Trattato di Rarotonga, che dal 1985 ha dichiarato il Pacifico meridionale zona esente da armi nucleari.
E’ bene soffermarsi sul concetto che le manipolazioni dell’ambiente naturale non riguardano solo il clima e la meteorologia ma bisogna annoverare anche le attività di tipo nucleare sistematiche. Si pensi, per esempio alla Francia, che dal 1975 al 1988 ha condotto più di mille test nucleari nell’Oceano Pacifico, presso l’atollo corallino di Mururoa, con la conseguente contaminazione radioattiva dell’isola e delle acque circostanti, rendendo inabitabile un paradiso dell’ecosistema, in aperta violazione del Trattato di Rarotonga, che dal 1985 ha dichiarato il Pacifico meridionale zona esente da armi nucleari.
Parte II –>
Climi di guerra (parte II)
di Carlo Stracquadaneo – tratto da www.AnalisiDifesa.it
Nel 1991, grazie alla “Glasnost”, fu svelato un programma di ricerca
militare avviato dall’Unione Sovietica tra gli anni sessanta e settanta,
destinato a provocare terremoti artificiali, causati mediante
esplosioni nucleari sotterranee, da sfruttare come arma di attacco
preventivo, da utilizzare prima di un attacco convenzionale. Si trattava
del programma “Kontinent”, i cui esperimenti sono forse stati la causa
di numerosi terremoti negli Urali, in quel decennio, di cui si ricorda
quello del nono grado della scala Richter, che rase al suolo la città di
Gasli.
Senza dubbio un’attività di manipolazione dell’ambiente naturale a fini militari, è stata realizzata nella primavera del 1991 durante la Guerra del Golfo, quando per effetto dell’incendio dei pozzi petroliferi del Kwait, ordinato da Saddam Hussein durante la ritirata del suo esercito, il cielo fu oscurato per parecchie settimane, rendendo l’aria irrespirabile e limitando di fatto le operazioni aeree e terrestri, rivolte contro l’esercito iracheno; anche il mare, coperto da una densa patina di greggio, fu inquinato in parecchie miglia di costa, con conseguente disastro all’ecosistema. La circostanza fu oggetto di particolare preoccupazione per il Comando interalleato che vide la spessa coltre di fumo come un’efficace cortina antiluce atta a consentire una prolungata sopravvivenza sul terreno a virus ed agenti patogeni, protetti in tal modo dall’azione dei raggi solari.
La circostanza non è confermata, ma sembra tuttavia che anche tale timore, abbia concorso nella determinazione di arrestare la penetrazione alleata verso Baghdad.
Senza dubbio un’attività di manipolazione dell’ambiente naturale a fini militari, è stata realizzata nella primavera del 1991 durante la Guerra del Golfo, quando per effetto dell’incendio dei pozzi petroliferi del Kwait, ordinato da Saddam Hussein durante la ritirata del suo esercito, il cielo fu oscurato per parecchie settimane, rendendo l’aria irrespirabile e limitando di fatto le operazioni aeree e terrestri, rivolte contro l’esercito iracheno; anche il mare, coperto da una densa patina di greggio, fu inquinato in parecchie miglia di costa, con conseguente disastro all’ecosistema. La circostanza fu oggetto di particolare preoccupazione per il Comando interalleato che vide la spessa coltre di fumo come un’efficace cortina antiluce atta a consentire una prolungata sopravvivenza sul terreno a virus ed agenti patogeni, protetti in tal modo dall’azione dei raggi solari.
La circostanza non è confermata, ma sembra tuttavia che anche tale timore, abbia concorso nella determinazione di arrestare la penetrazione alleata verso Baghdad.
La diversa interpretazione delle tutele tra Protocolli Aggiuntivi e Convenzione Enmod
Nella seconda metà degli anni settanta, la formazione di nuovi Stati
nazionali, la guerra di Corea, l’Indocina, l’Algeria, i conflitti
Arabo-Israeliani, la guerra del Vietnam come pure le guerre civili in
Africa, Asia e Sud America, evidenziarono la necessità di aggiornare le
Convenzioni di Ginevra del 1949 alla nuova realtà geopolitica e sociale.
Nel 1977, l’adozione dei due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni del 1949 consentì di ridefinire le tipologie di conflitto armato, includendo fra quelli a carattere internazionale le guerre di liberazione contro le dominazioni coloniali, l’occupazione straniera e i regimi razzisti.
Nel I Protocollo Aggiuntivo (I-PA77), facendo riferimento a metodi e mezzi di guerra, l’art. 35 ribadisce il principio fondamentale già contenuto sia nella Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868, che nelle convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907: “In ogni conflitto armato, il diritto delle Parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato”. E’ vietato l’impiego di armi proiettili e sostanze, nonché metodi di guerra capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili. E’ vietato l’impiego di metodi o mezzi di guerra concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi e durevoli all’ambiente naturale”.
L’art. 48 enuncia la regola fondamentale in tema di protezione della popolazione civile imponendo alle parti di fare, “in ogni momento”, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra beni di carattere civile e gli obiettivi militari.
L’art. 51, vieta inoltre gli attacchi diretti nei confronti della popolazione civile anche a titolo di rappresaglia nonché gli “attacchi indiscriminati” .
Il successivo art. 52 offre la definizione di “obiettivo militare” vietando contestualmente l’attacco o la rappresaglia su beni di carattere civile All’art. 55 sono inoltre introdotte disposizioni destinate a salvaguardare l’ambiente naturale da danni estesi, durevoli e gravi come quelli causati dall’uso di napalm e defoglianti, già vietate rispettivamente dal III Protocollo del 1981 sulle armi che producono sofferenze inutili e della Convenzione del 1977 (Convenzione “Enmod”) relativa al divieto di utilizzare tecniche di modifica dell’ambiente naturale per scopi militari o per qualsiasi scopo ostile. Infine, l’art. 56, indica le norma di protezione per le opere e installazioni che racchiudono forze pericolose, a causa dei danni che possono derivare all’incolumità della popolazione civile.
Il II Protocollo (II-PA77), memore delle guerre civili combattute in Africa, Asia ed America del Sud (in Argentina i desaparecidos furono circa 30.000 in soli quattro anni), detta in 28 articoli la disciplina dei conflitti armati non internazionali, le cui vittime erano state, fino a tale momento, abbandonate alla tutela minimale offerta dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni del 1949.
Il contenuto dei Protocolli segna fine alla tradizionale bipartizione fra diritto dell’Aja, relativo a mezzi e metodi di combattimento e diritto di Ginevra, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati, dando origine al moderno Diritto Internazionale Umanitario.
Come accennato, in risposta a quanto avvenne in Vietnam, a seguito dell’impiego massiccio di Agente Orange (vedasi l’articolo “Veleni di guerra” di C. Stracquadaneo, su Analisi Difesa, n. 42, Febbraio 2004) vennero quindi adottati nel 1977 i due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra, i cui artt. 35, comma 3 e 55, introdussero il divieto di adottare mezzi e metodi di guerra concepiti per provocare danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale.
La Conferenza del Comitato sul disarmo, tenutasi a Ginevra il 18 maggio 1977, diede a sua volta origine alla Convenzione sulla proibizione dell’uso militare o di qualsiasi altro uso ostile delle tecniche di modificazione dell’ambiente, (ormai nota con l’acronimo “Enmod”).
Tuttavia, nonostante i principi tutelati dal Primo Protocollo Aggiuntivo e dalla Convenzione “Enmod” siano identici, sorprendentemente i termini di riferimento non hanno ottenuto la medesima interpretazione.
Il Primo Protocollo è orientato alla protezione dell’ambiente in quanto tale, indipendentemente dal fatto che il suo danneggiamento si ripercuota direttamente sulla popolazione civile; perciò al termine “danno durevole” viene associato un effetto che si protragga per un periodo di vari decenni, mentre negli “understandings” della Convenzione “Enmod” l’implicazione temporale è ben più restrittiva: per “durevole” si intende un danno ambientale protratto per un periodo di mesi, pari a circa una stagione. Sempre per la Convenzione “Enmond” il termine “esteso” viene riferito ad un’area di parecchie centinaia di chilometri quadrati e per “grave” si intende una seria e significativa distruzione e pregiudizio per la vita umana, alle risorse economiche e naturali. Inoltre, l’obbligo di proteggere l’ambiente naturale in tempo di conflitto armato è stato ribadito dal XXIV Principio della Dichiarazione di Rio del 1992 sull’ambiente e lo sviluppo e dalla Corte Internazionale di giustizia (ICJ) nel 1996, che nel parere sulla liceità della minaccia o dell’uso di armi nucleari, ha dichiarato l’esistenza di un obbligo internazionale di proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi (ICJ, Reports, par. 31).
Allora che dire della cancellazione di migliaia di ettari di foreste indocinesi durante la guerra del Vietnam? Purtroppo a quell’epoca – la guerra terminò nel 1975 – queste norme non erano in vigore, né era noto l’altissimo livello di pericolosità della diossina, che solo nel 1994 è stata riconosciuta come una grave minaccia alla salute pubblica. Pertanto, le devastanti operazioni di deforestazione (Area denial missions) condotte in quel teatro operativo mediante defolianti, non possono essere retroattivamente considerate alla stregua di crimini di guerra.
Ancora oggi gli erbicidi e i defolianti non sono considerati armi chimiche e il loro uso è proibito solo se provoca effetti estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale. La proibizione pertanto riguarda l’uso che ne viene fatto, come del resto è riconosciuto nel preambolo della Convenzione sul disarmo chimico (Parigi 1993) che condanna gli erbicidi come “metodo” di guerra. Un altro schiaffo alle convenzioni internazionali, è la rivelazione che gli studi e le ricerche scientifiche del programma “Kontinent” proseguirono in Russia ancora per quasi venti anni dopo la Convenzione Enmod, sollecitata dalla stessa Unione Sovietica. Secondo quanto dichiarato dallo scienziato Giancarlo Bove,: “abbandonati i test nucleari sotterranei, diventati ormai pericolosi per l’impatto ambientale e l’inquinamento provocato dalle esplosioni, i responsabili scientifici e militari si orientarono verso la TeleGeoDinamica e i sistemi d’arma a energia diretta EM (electronic pulse weapon) per concludersi definitivamente nel 1996” (!).
Nel 1977, l’adozione dei due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni del 1949 consentì di ridefinire le tipologie di conflitto armato, includendo fra quelli a carattere internazionale le guerre di liberazione contro le dominazioni coloniali, l’occupazione straniera e i regimi razzisti.
Nel I Protocollo Aggiuntivo (I-PA77), facendo riferimento a metodi e mezzi di guerra, l’art. 35 ribadisce il principio fondamentale già contenuto sia nella Dichiarazione di San Pietroburgo del 1868, che nelle convenzioni dell’Aja del 1899 e del 1907: “In ogni conflitto armato, il diritto delle Parti in conflitto di scegliere metodi e mezzi di guerra non è illimitato”. E’ vietato l’impiego di armi proiettili e sostanze, nonché metodi di guerra capaci di causare mali superflui o sofferenze inutili. E’ vietato l’impiego di metodi o mezzi di guerra concepiti con lo scopo di provocare, o dai quali ci si può attendere che provochino, danni estesi e durevoli all’ambiente naturale”.
L’art. 48 enuncia la regola fondamentale in tema di protezione della popolazione civile imponendo alle parti di fare, “in ogni momento”, distinzione fra la popolazione civile e i combattenti, nonché fra beni di carattere civile e gli obiettivi militari.
L’art. 51, vieta inoltre gli attacchi diretti nei confronti della popolazione civile anche a titolo di rappresaglia nonché gli “attacchi indiscriminati” .
Il successivo art. 52 offre la definizione di “obiettivo militare” vietando contestualmente l’attacco o la rappresaglia su beni di carattere civile All’art. 55 sono inoltre introdotte disposizioni destinate a salvaguardare l’ambiente naturale da danni estesi, durevoli e gravi come quelli causati dall’uso di napalm e defoglianti, già vietate rispettivamente dal III Protocollo del 1981 sulle armi che producono sofferenze inutili e della Convenzione del 1977 (Convenzione “Enmod”) relativa al divieto di utilizzare tecniche di modifica dell’ambiente naturale per scopi militari o per qualsiasi scopo ostile. Infine, l’art. 56, indica le norma di protezione per le opere e installazioni che racchiudono forze pericolose, a causa dei danni che possono derivare all’incolumità della popolazione civile.
Il II Protocollo (II-PA77), memore delle guerre civili combattute in Africa, Asia ed America del Sud (in Argentina i desaparecidos furono circa 30.000 in soli quattro anni), detta in 28 articoli la disciplina dei conflitti armati non internazionali, le cui vittime erano state, fino a tale momento, abbandonate alla tutela minimale offerta dall’art. 3 comune alle quattro Convenzioni del 1949.
Il contenuto dei Protocolli segna fine alla tradizionale bipartizione fra diritto dell’Aja, relativo a mezzi e metodi di combattimento e diritto di Ginevra, relativo alla protezione delle vittime dei conflitti armati, dando origine al moderno Diritto Internazionale Umanitario.
Come accennato, in risposta a quanto avvenne in Vietnam, a seguito dell’impiego massiccio di Agente Orange (vedasi l’articolo “Veleni di guerra” di C. Stracquadaneo, su Analisi Difesa, n. 42, Febbraio 2004) vennero quindi adottati nel 1977 i due Protocolli Aggiuntivi alle Convenzioni di Ginevra, i cui artt. 35, comma 3 e 55, introdussero il divieto di adottare mezzi e metodi di guerra concepiti per provocare danni estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale.
La Conferenza del Comitato sul disarmo, tenutasi a Ginevra il 18 maggio 1977, diede a sua volta origine alla Convenzione sulla proibizione dell’uso militare o di qualsiasi altro uso ostile delle tecniche di modificazione dell’ambiente, (ormai nota con l’acronimo “Enmod”).
Tuttavia, nonostante i principi tutelati dal Primo Protocollo Aggiuntivo e dalla Convenzione “Enmod” siano identici, sorprendentemente i termini di riferimento non hanno ottenuto la medesima interpretazione.
Il Primo Protocollo è orientato alla protezione dell’ambiente in quanto tale, indipendentemente dal fatto che il suo danneggiamento si ripercuota direttamente sulla popolazione civile; perciò al termine “danno durevole” viene associato un effetto che si protragga per un periodo di vari decenni, mentre negli “understandings” della Convenzione “Enmod” l’implicazione temporale è ben più restrittiva: per “durevole” si intende un danno ambientale protratto per un periodo di mesi, pari a circa una stagione. Sempre per la Convenzione “Enmond” il termine “esteso” viene riferito ad un’area di parecchie centinaia di chilometri quadrati e per “grave” si intende una seria e significativa distruzione e pregiudizio per la vita umana, alle risorse economiche e naturali. Inoltre, l’obbligo di proteggere l’ambiente naturale in tempo di conflitto armato è stato ribadito dal XXIV Principio della Dichiarazione di Rio del 1992 sull’ambiente e lo sviluppo e dalla Corte Internazionale di giustizia (ICJ) nel 1996, che nel parere sulla liceità della minaccia o dell’uso di armi nucleari, ha dichiarato l’esistenza di un obbligo internazionale di proteggere l’ambiente naturale contro danni estesi, durevoli e gravi (ICJ, Reports, par. 31).
Allora che dire della cancellazione di migliaia di ettari di foreste indocinesi durante la guerra del Vietnam? Purtroppo a quell’epoca – la guerra terminò nel 1975 – queste norme non erano in vigore, né era noto l’altissimo livello di pericolosità della diossina, che solo nel 1994 è stata riconosciuta come una grave minaccia alla salute pubblica. Pertanto, le devastanti operazioni di deforestazione (Area denial missions) condotte in quel teatro operativo mediante defolianti, non possono essere retroattivamente considerate alla stregua di crimini di guerra.
Ancora oggi gli erbicidi e i defolianti non sono considerati armi chimiche e il loro uso è proibito solo se provoca effetti estesi, durevoli e gravi all’ambiente naturale. La proibizione pertanto riguarda l’uso che ne viene fatto, come del resto è riconosciuto nel preambolo della Convenzione sul disarmo chimico (Parigi 1993) che condanna gli erbicidi come “metodo” di guerra. Un altro schiaffo alle convenzioni internazionali, è la rivelazione che gli studi e le ricerche scientifiche del programma “Kontinent” proseguirono in Russia ancora per quasi venti anni dopo la Convenzione Enmod, sollecitata dalla stessa Unione Sovietica. Secondo quanto dichiarato dallo scienziato Giancarlo Bove,: “abbandonati i test nucleari sotterranei, diventati ormai pericolosi per l’impatto ambientale e l’inquinamento provocato dalle esplosioni, i responsabili scientifici e militari si orientarono verso la TeleGeoDinamica e i sistemi d’arma a energia diretta EM (electronic pulse weapon) per concludersi definitivamente nel 1996” (!).
Cos’è la salvaguardia della popolazione civile senza la tutela ambientale?
Il Primo Protocollo Aggiuntivo del 1977 non attribuì alla guerra
ambientale la categoria di “grave violazione” del diritto internazionale
umanitario, ma si limitò a proibire l’uso indiscriminato di mezzi
bellici intesi deliberatamente a causare danni all’ambiente naturale e
pregiudicare la salute e la sopravvivenza della popolazione, nonché il
divieto di modificazione dell’ambiente a scopo di rappresaglia. Oggi
invece lo Statuto della Corte Penale Internazionale annovera fra i
crimini anche il fatto di “causare danni diffusi, duraturi e gravi
all’ambiente naturale”.e ascrive altresì tra i crimini, i danni
collaterali all’ambiente, se questi sono estesi, durevoli e gravi,
tenendo come riferimento gli “understandings” della Convenzione “Enmod”.
In questo caso, attraverso l’imputabilità di crimine internazionale
anche per danni collaterali, lo Statuto ha inteso rafforzare la tutela
dell’ambiente, nella considerazione di poter realizzare, per mezzo di
esso, una forma di ulteriore protezione nei confronti dei civili che non
prendano parte alle ostilità.
Quello che per Emmerich può rappresentare il futuro non è quindi fantascienza ma realtà. Proiettata che sia nel futuro o nel passato, allude sempre al presente, ma pochi film del genere catastrofico sono più vicini ai rischi contemporanei di The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo: i disastri meteorologici del film somigliano troppo alle nostre stagioni confuse di grandi freddi o grandi caldi, i guai climatici sono troppo simili ai nostri, il surriscaldamento globale e il buco dell’ozono certo non ci sono estranei.
Quello che per Emmerich può rappresentare il futuro non è quindi fantascienza ma realtà. Proiettata che sia nel futuro o nel passato, allude sempre al presente, ma pochi film del genere catastrofico sono più vicini ai rischi contemporanei di The Day After Tomorrow – L’alba del giorno dopo: i disastri meteorologici del film somigliano troppo alle nostre stagioni confuse di grandi freddi o grandi caldi, i guai climatici sono troppo simili ai nostri, il surriscaldamento globale e il buco dell’ozono certo non ci sono estranei.
Il punto inquietante della storia però è dato dalla risposta del
Pentagono alla fuga di notizie sul rapporto Schwartz e Randall: “lo
scenario descritto nel rapporto non è plausibile” insiste da Washington
il portavoce Daniel Hetlage, “serve solo a dare al Pentagono un tema di
riflessione per un futuro lontano”: una secca smentita, i due scienziati
hanno solo lavorato su ipotesi; ma perché il Pentagono dovrebbe pagare
un contratto da 100mila dollari per farsi raccontare della fantascienza?
Come si è visto, gli Stati non hanno rinunciato ai loro esperimenti
anche dopo la convenzione “Enmod”, chi può assicurare che le
potenzialità tattiche di una volta non siano diventate capacità
strategiche?
Forse è giunta l’ora che tutti gli Stati si impegnino a osservare
davvero il Protocollo di Kyoto e forse anche riaffermare e rinnovare i
termini sul rispetto della Convenzione “Enmond”, per garantire in questo
settore applicazioni veramente pacifiche e confacenti con la salute
dell’uomo, il benessere e l’equilibrio naturale.
<– Parte I
c.stracquadaneo@analisidifesa.it
Ten. Col. Carlo STRACQUADANEO
Ufficiale S.M. Aeronautica Militare
Docente Diritto Operazioni Militari
Scuola di Guerra Aerea – Firenze
FONTI E APPROFONDIMETI:
IMMAGINARE L’IMPENSABILE
http://www.verdi.it/download/climailrapportodelpentagono.pdf
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