La politica non è un
esercizio di pedagogia, e bisogna dubitare della sincerità delle
convinzioni democratiche di politici che credono all’esistenza di una
sola soluzione; magari involontariamente, essi sono i precursori del
totalitarismo.
La domanda è tutt’altro che scontata, soprattutto visti i risvolti
attuali. I vari leader europei si mostrano molto preoccupati da quelle
che vengono definite tendenze populiste e demagogiche, ma da cosa si
capisce cos’è la demagogia? Ovviamente finché gli organi di informazione
(qualcuno li chiamerebbe di disinformazione) saranno dalla parte delle
oligarchie, nonostante le costanti critiche alla corruzione della
politica non avverrà una reale delegittimazione del sistema nel suo
insieme. Insomma, finché un grosso numero di persone sarà convinto che
esistono mali minori e mali peggiori, elettoralmente parlando, la
situazione rischia solo di deteriorarsi ulteriormente. A tal proposito
rimane anche da chiedersi cosa intendano per ‘democrazia’ i politici
italiani e gli eurocrati e in che cosa si sentano ‘democratici’, la
questione non è affatto scontata: se si sentono ‘democratici’ alla
maniera dell’Honduras, allora si possono capire tante cose.
Esagerazione? Affatto, chi ha eletto Herman Van Rompuy?
Esiste in ogni paese del mondo una pericolosissima specie, ossia
coloro che sono convinti dell’ esportabilità del modello
democratico-liberale, ciecamente convinti del bisogno viscerale di tutti
i popoli di adottare tale credo. Tra questi l’americano Fukuyama pensa
che le democrazie liberali rappresentino il punto finale dell’evoluzione ideologica dell’umanità e la forma finale di governo dell’uomo,
ma non solo, lo studioso americano si spinge fino ad affermare la fine
delle competizioni geopolitiche e le guerre tra stati
democratico-liberali (Fukuyama, 1996, p.4-18); tale visione teleologica
pecca di arroganza intellettuale, è alquanto limitata e al contempo
potrà mostrarsi presto terribilmente sbagliata. Già alla fine degli anni
’70 altre azzardate previsioni geopolitiche si dimostrarono
inconsistenti. Secondo Yves Lacoste nel 1978 l’Europa ha riscoperto la
geopolitica quando il Vietnam invase la Cambogia e la Cina invase il
Vietnam: tutto ciò contribuì alla fine dell’idea secondo la quale tra
stati socialisti non potessero nascere conflitti (Lacoste, 1990, p.17),
idea nata dal fatto che Stalin aveva dato l’ordine di considerare la
geopolitica mera espressione del pensiero politico nazista (Jean, 2003,
pp.3-6). Fukuyama in Esportare la democrazia, dopo aver preso
altezzosamente atto del fatto che la democrazia liberale e liberista ha
rappresentato l’anello finale dell’evoluzione socio-economico mondiale
analizza le modalità con le quali diffonderne tale modello per il mondo,
quasi come se esso potesse rispondere alle esigenze di tutti i popoli, e
come se questi ultimi fossero davvero costretti ad adattarvisi. Inoltre
il concetto ambiguo degli stati canaglia a detta di taluni
rappresenta una sorta di infiltrazione di mentalità fondamentalista nel
modo in cui l’Occidente si pone nei confronti del resto del mondo e di
chi non ne segue i criteri cardine; le misure prese per punire questi
stati dissidenti sono di diverso tipo, si va dagli embarghi alle guerre,
tutte misure che poi nei fatti si traducono in ritorsioni contro le
popolazioni civili (Habermas, 2005, pp.169-173). Se questa è la
democrazia allora alla sua base vi è un qualcosa di totalitario; oppure
questa non è democrazia. Di per sé questa parola non ha assolutamente un
significato negativo, ma il pericolo è quello che essa si trasformi in
demagogia. L’ambiguità lessicale del termine democrazia comunque è molto
alta e controversa (Mastropaolo, 2011, pp.21-45).
La democrazia per i greci non aveva un’accezione
economico-finanziaria. Platone nella Repubblica metteva in guardia dal
pericolo di assegnare cariche politiche ai mercanti. Cos’è successo
quindi? Perché la rappresentazione che la democrazia fornisce di sé
stessa appare oggi indissolubilmente legata a quella che viene definita
economia di mercato? C’è chi parla addirittura di una futura frattura
geopolitica vera e propria tra quei paesi che si piegheranno del tutto
all’economia di mercato globale e quegli stati che metteranno in gioco
forme più o meno forti di resistenza (Friedman, 2000, p.57). Inoltre
molti paesi che hanno adottato le misure di liberismo estremo in realtà
hanno peggiorato la propria situazione in maniera esponenziale. Si
aggiunga che riconducendo la questione delle trasformazioni strutturali
al solo problema della privatizzazione, il gergo economico assume una
dimensione neologistica degna del 1984 di Orwell (Sapir, 1997,
p.50); la questione peraltro non è insignificante se si pensa al
significato misterioso ed esoterico che parole quali spread, bund, btp hanno
avuto e continuano ad avere per una larga parte di popolazione
italiana. Il liberismo da molti oramai palesemente confuso con la
democrazia mostra tutte le sue tendenze autoritarie: il disegno
neoliberale della società del mercato mondiale conta sulla emarginazione
dello Stato e della politica. […], mentre il diritto internazionale
destatalizzato si trasforma in un ordinamento privatistico su scala
mondiale, che istituzionalizza il traffico del mercato globalizzato. Il
dominio delle leggi che si autoeseguono non avrà più bisogno di alcuna
sanzione statale, perché le funzioni di coordinamento del mercato
mondiale bastano a una integrazione pre-statale della società mondiale (Habermas, 2005, pp.188-189). Domanda che sorge spontanea è: cosa c’entra tutto questo con la democrazia?
Ancora più inquietante è l’idea kantiana che propugna l’annullamento
delle tendenze particolari di cui si fanno portavoce gli stati membri
dell’ONU: annullarne il carattere di democrazia dal basso di cui in
teoria i suoi rappresentanti si fanno portavoce, eliminando in questo
modo ogni pretesa di sovranità, che se magari va sempre a discapito di
qualcun’ altro, in questo modo non andrà più a vantaggio di nessuno,
creando nel sistema internazionale quasi una sorta di paralisi
(Habermas, 2005, pp.134-143). Per taluni l’Onu è un’istituzione corrotta
alla base, che nonostante le istanze moralistiche e umanitarie di
facciata, nei fatti è chiaramente complice dei potenti e delle proprie
malefatte (Marcon, 2000, p.114). Alla luce di tutto quello che è
successo negli ultimi decenni come si fa a non dare ragione a chi
sottoscrive queste affermazioni? Evidentemente spessissimo la retorica
dei ‘diritti umani’ è collusa davvero con gli interessi di attori terzi.
Quindi come si può pretendere di prendere per buone le notizie a senso
unico nei confronti di ipotetiche violazioni dei diritti, ad esempio in
Russia o Cina, senza pensare un attimino che queste informazioni mirano
proprio a delegittimarne le autorità? E si badi bene che questo non
significa pensare che gli stati accusati in questione (ovviamente ve ne
sono tanti altri) non abbiano effettivamente pratiche autoritarie; ma
francamente è offensivo, per chi non ha il prosciutto negli occhi,
sapere che i propri media abbiano da ridire solo sulle pratiche poco
trasparenti di stati non proprio allineati al diktat mondialista. E
inoltre la cosa che fa più pensare è proprio che tali pratiche sono
tipiche delle dittature: e in una dittatura viviamo pure noi occidentali
da molti punti di vista se ancora oggi nelle nostre carceri o nelle
nostre questure ogni tanto qualcuno muore in circostanze poco chiare, se
i nostri ‘alleati’ americani hanno ancora campi di concentramento
(perché sono questo) dove ospitano i dissidenti politici -li chiamano
terroristi- e se in Inghilterra (patria della disuguaglianza sociale) lo
stato spenda cifre stratosferiche per il mantenimento della famiglia
reale e per i funerali della Thatcher quando poi ha avviato un programma
di smantellamento dello stato sociale, e dove il dissenso viene
represso con le bastonate della polizia. E quindi che ci si levi una
volta per tutte quell’aria di disgusto e non approvazione quando si
parla di paesi non allineati, quando poi a casa nostra (l’Occidente),
giorno dopo giorno si sprofonda verso il basso. Non sarà fare la guerra a
qualche paese non democratico a cambiare le cose, i panni sporchi si
lavano in famiglia diceva qualcuno: forse bisognerebbe ricordarselo
prima di dire a qualcun altro come essere. È per questo che i paesi
europei hanno bisogno di sganciarsi dall’Onu, che qualcuno potrebbe
definire un’associazione finalizzata alla truffa. È importante che un
ipotetico blocco europeo deamericanizzato non dia più tutta questa
legittimità ad organizzazioni chiaramente pilotate dagli Usa.
L’hitlerizzazione o la saddamizzazione che dir sì voglia di presunti
nemici dell’Occidente sono strategie subdole di cui un’Italia che non ha
bisogno di guerre deve mettere da parte, per iniziare una volta per
tutte a dare soluzioni vere solamente ai propri problemi interni.
Proprio per questo è necessario non appoggiare più le ‘missioni di
pace’, ritirare i nostri contingenti militari sparsi per il mondo e
utilizzarli solo per quello che servono: difendere la nazione in caso di
aggressioni. Anche perché, gli italiani non hanno nulla da guadagnare
da un sistema neocoloniale, cosa che arricchisce solo le élite.
C’è addirittura chi parla di un sottile limes tra informazione e propaganda,
tra i tantissimi difetti del giornalismo italiano quelli più
fastidiosamente presenti sono il sensazionalismo e la
spettacolarizzazione, fattori questi indicativi di un regresso generale.
Inoltre solitamente manipolazioni e distorsioni della verità sono
attribuite ai regimi totalitari, ma analizzando correttamente quello che
è il giornalismo italiano ci si potrebbe porre qualche legittimo
dubbio. Insomma, per qualcuno, il tetro termine propaganda sarebbe stato semplicemente sostituito dall’innocente parola informazione, per il resto sarebbe cambiato molto meno di quello che si pensa (Boria, 2012, pp.113-123). In questo paese teoricamente c’è libera informazione ma
nei fatti chi viene ‘informato’ conosce solo quello che gli si vuole
dire, si pensi ad esempio al fatto che le testate giornalistiche e le
televisioni traggono le proprie informazioni da agenzie ben precise [1]. Quando
vi è penuria di immagini, il trucco diventa regola e la «bufala» viene
considerata un’invenzione geniale per fare audience. […] Difatti, i
network forniscono rapidissime sequenze di immagini, in cui quelle
successive cancellano le precedenti, senza consentire nessuna
valutazione di veridicità […]; così, le smentite sono parziali e
trasmesse in modo tale da non suscitare l’attenzione e le emozioni
destate dalla prima notizia, anche perché tra i media non viene
utilizzata la teoria del sospetto o la dietrologia sulle notizie altrui
[…] (Jean, 2003, p.185).
Inoltre l’atteggiamento assunto da parte dei politici, soprattutto
durante i periodi di campagna elettorale, deve moltissimo ai meccanismi
di marketing pubblicitario, puntando sugli impulsi più semplici
degli spettatori più passivi; ma non è tutto, secondo qualcuno ancora
più pessimista-realista in realtà le menti umane sarebbero modellate ad
hoc, i gusti corrisponderebbero a parametri ben precisi e le idee
suggerite appositamente. L’illusione di vivere in una società
democratica, nell’accezione greca del termine, unita alla sensazione che
tale modello sia superiore a tutti gli altri presenti sul pianeta porta
con sé il rischio di prendere per buono tutto quello che i media
propinano. Come non dimenticare quando, di recente, per giustificare
l’intervento in Libia [2]
si parlò di fosse comuni nei quali i miliziani di Gheddafi avrebbero
buttato civili inermi, mai inquadrate da nessuna telecamera; o ancora
più recentemente quando nella vergognosa campagna di delegittimazione
nei confronti di Bashar Al Assad i nostri ‘liberi’ mezzi di informazione
dissero che i carri armati del regime utilizzavano come scudi umani
bambini? Le democrazie nonostante in teoria ripudino la guerra nella
pratica proprio a causa del loro fondamento democratico, esse possono
mobilitare il consenso solo negando la natura geopolitica del conflitto
e caricandolo di un surplus di motivazioni ideologiche, fino a
demonizzare l’avversario e a trasformare ogni guerra in una crociata (Jean, 2003, p.81). Viviamo
dunque una perenne ed estenuante rincorsa: in ogni momento storico
cogliamo i meccanismi della propaganda del periodo precedente, ma mai
quelli del periodo in corso (Boria, 2012, pp.113-123). Ovviamente in
Italia esiste tutta una giurisdizione che si occupa di sanzionare i
falsi giornalistici (Casillo et al., 1997, pp.163-214), ma su quanto
essa sia funzionante si potrebbe nutrire qualche legittimo dubbio [3]. Quali poi siano le differenze con la propaganda dei paesi sotto dittatura è un altro mistero irrisolto. In
realtà, tanto più forte è la rimozione del dibattito pubblico sugli
interessi nazionali, tanto più essi saranno definiti in modo oligarchico
e antidemocratico (Jean, 2003, p.58): la situazione è esattamente
questa. Qualcuno osserva che il dibattito sull’Ue sia abbia una funzione
democratizzante, poiché la critica alle istituzioni è un elemento
fondamentale della legittimazione democratica (Caiani e Della Porta,
2006, p.24); se così è allora bisogna arrivare alla conclusione che alla
base delle istituzioni nazionali e sovranazionali in Europa vi è
davvero un problema di trasparenza. Le modalità con le quali sono
trattati tutti i gruppi ‘euroscettici’ di certo non è neutrale. Gli
aggettivi affibbiati ai gruppi che si oppongono all’Ue sono sempre e
solo negativi. Ne consegue che un reale dibattito sull’appartenenza a
quest’Europa è del tutto assente in Italia. Non è un mistero che tutte
le formazioni euroscettiche siano considerate dai media alla stregua di
gruppi irresponsabili e estremisti, e come tali vengono trattati.
Già all’inizio degli anni ’90 nella percezione di molti cittadini di
paesi membri dell’Unione Europea si segnalava che alla base di tale
istituzione vi fosse un deficit democratico (Caiani e Della Porta, 2006,
p.9). Andrebbero poste alcune domande, innanzitutto l’Ue è un organismo
democratico? Agisce in maniera davvero democratica? C’è chi afferma che
le istituzioni ‘europee’ mancano di legittimità democratica vera e
propria (Kupchan, 2003, pp.173-174). Può la democrazia diventare una
nuova forma di totalitarismo? Perché l’uomo occidentale (per lo meno le
sue élite intellettuali e politiche) si credono il fine ultimo
della storia? Perché la visione teleologica dei marxisti ha contaminato
così tanto il mondo occidentale fintanto a spingerlo ad una delirante
percezione di superiorità rispetto a tutti gli altri modelli? E si badi
bene che stiamo parlando del modello iperliberista di cui la Germania e i
vertici di Bruxelles si fanno portavoce. Perché i teorici del pareggio
di bilancio ad ogni costo credono che il loro modello sia superiore agli
altri? Ma soprattutto come fanno ad essere così dogmaticamente convinti
che esso sia esportabile in altri contesti? L’epiteto di Pigs come
sono gentilmente soprannominati i paesi non virtuosi non è mai stato
letto in maniera critica, anzi accettato dall’opinione comune come un
modo per fare di più, per assomigliare ai paesi nordici (intento cui
acriticamente mirano le formazioni europeiste di centro sinistra e di
centro destra), ma il modello teutonico è davvero così virtuoso?
Sicuramente è più solido di tanti altri ora come ora, ma Berlino ha
davvero messo da parte le istanze sovraniste in nome di un Europa comune
o sta solo perseguendo finalità di natura imperiale come del resto ha
tentato di fare in due conflitti mondiali? A maggio 2013 è stato
rilevato che l’unico paese dell’Ue che ha registrato miglioramenti
economici è stata proprio la Germania, anche a discapito della Francia.
Nel frattempo sembra che le tesi dell’estremismo americano sul cosiddetto scontro di civiltà (Huntington,
1996) si siano in qualche modo imposte pure nel Mediterraneo (Cadullo,
2011, pp.207-229) -visto come area di confine tra presunta civiltà
Occidentale e presunta civiltà islamica- e nel sistema europeo in
generale, in maniera velata ma insistente; l’ossessione nordica e
l’arroganza sempre più ripetitiva secondo la quale l’Europa del nord sia
virtuosa e quella del sud lassista e parassitaria è diventato un
ritornello nelle élite europee, questo sicuramente non lo si può
dire apertamente perché se no il cosiddetto antieuropeismo crescerebbe
ancora di più al sud, ma è palese e sotto gli occhi di tutti. Da quando i
paesi dell’Europa dei Piigs hanno abbracciato il rigorismo
europeo e la sua moneta unica perdendo la propria sovranità monetaria
effettivamente il tracollo economico è diventato reale, ma
paradossalmente esso è arrivato dopo avere adottato l’euro. La crisi è
finanziaria o economica? La colpa dei paesi mediterranei è reale e
atavicamente insita nelle proprie cattive usanze o c’è qualcosa in più
da dire? L’Italia senza entrare in Europa si sarebbe davvero impoverita? Per
anni ogni critica della nuova moneta europea è stata considerata un
affronto e un vero e proprio tabù; adesso guarda caso che la situazione è
peggiorata sempre più gente ha smesso di prendere per buone le
motivazioni ‘europee’ ed ha iniziato ad interessarsi di economia in
maniera meno dogmatica. Ma la domanda principale è: perché agli italiani
non è stato chiesto se volevano adottare l’euro?
Inoltre negli ultimi anni hanno preso sempre più piede stereotipi
‘mediterraneisti’, ossia legati all’idea di una presunta omogeneità di
tutte le aree che si affacciano su questo mare, caratterizzate da
ipotetiche culture che necessitano sempre dell’intervento esterno
dell’Occidente per potersi evolvere (Cadullo, 2011, pp.207-229); in
tutto questo il ruolo dell’Unione Europea sicuramente è stato complice
della crescita di queste idee razziste nei confronti degli abitanti
dell’Europa meridionale.
La precarietà lavorativa storicamente è connaturata alla cultura
nordica, soprattutto a quella anglosassone, infatti maggiore
indipendenza individuale significava anche maggiori rischi. Al contrario
le culture mediterranee tendenzialmente hanno sempre avuto la tendenza a
proteggere maggiormente i membri della famiglia, fino ad arrivare al
cosiddetto ‘familismo amorale’ del quale si è parlato e ipotizzato
parecchio (Galland e Yannick, 2007, pp.57-69) con spirito disgustato e
critico. Quello che mi preme dire a prescindere dalle analisi storiche
ed etnografiche, che comunque sono necessarie, è quanto l’Unione Europea
abbia la tendenza a mutare in maniera tacita ma al contempo violenta
usanze storiche consolidate. Mai quanto oggi non si può non parlare
delle analisi weberiane, che già all’epoca enfatizzarono quanto
determinati aspetti del capitalismo fossero ascrivibili all’etica
protestante. Forse quella del sociologo fu per certi versi
un’estremizzazione, ma troppi aspetti della sua analisi hanno punti di
vista interessanti da tenere in considerazione, che per certi versi
possano essere riconsiderati attuali.
Il trattato di Maastricht è diventato il simbolo del fatto che ha
vinto il rigore sulla solidarietà, e che lo stato sociale è stato
sacrificato in nome del neoliberismo (Caiani e Della Porta, 2006,
p.10).Alcune analisi hanno dimostrato che di Europa si parla poco e se
ne sa ancora meno; è stato inoltre anche dimostrato che il Parlamento
europeo tende a lavorare in maniera riservata (Caiani e Della Porta,
2006, p.27). L’illusione dell’unità europea ha portato ad una cieca e
dogmatica incapacità di vedere quanto i paesi dell’attuale Ue fossero
differenti per cultura, politica e storia. Quando ci si è accorti che
c’erano dei problemi si è cercato di risolverli aumentando i vincoli
europei, senza mai realmente chiedersi se essi al contrario non fossero
invece i mali che affliggono il vecchio continente. Ma il problema non è
solo europeo: schiere di analisti, studiosi e politici sono convinti
del bisogno di diffondere il modello democratico-neoliberista,
paradossalmente anche quando la domanda stessa di democrazia, o per lo
meno quello che intendono con tale termine questi luminari, in molti
paesi è inesistente o quasi (Fukuyama, 2005, pp.49-58). Ma ricordiamoci
sempre che stiamo parlando di economisti che sostengono la necessità
della privatizzazione di tutti quei settori controllati dallo stato. Gli
unici effetti cui abbiamo assistito finora, come in Argentina, sono
stati l’aumento generale del costo della vita, l’esproprio di risorse
che erano nazionalizzate e la creazione di stati in odore di mafia.
Negli ultimi tempi le nostre tv sono state infestate da ciarlatani che
hanno detto che le uniche soluzioni erano le liberalizzazioni in
economia e l’aumento della competitività, vale a dire il ritorno a forme
di schiavitù legalizzate. Questo lavaggio del cervello fin ora è solo
servito ad aumentare la disoccupazione. Staremo a vedere quali saranno i
risultati dei prossimi vent’anni di austerità economica, perché questo
sacrificio impone la ‘Grande Germania’ per poter creare la nuova Europa;
che poi vi vada di mezzo tutta una generazione sono dettagli per
qualcuno, per altri meno, ma ci si ricordi una cosa: sull’altare della
storia spesso sono state sacrificate le masse, pensare che ciò non possa
più accadere è sintomatico di ottusità. L’esperimento è già stato
provato in ex Jugoslavia, e ha prodotto esiti disastrosi. Pensare che
l’Italia non sarà offerta in sacrificio potrebbe rivelarsi sbagliato. È
per questo che il diritto alla ribellione è vitale, e si deve iniziare a
pensare che un domani esso dovrà essere seriamente preso in
considerazione, non più solo a parole.
Un’altra questione che per certi versi potrebbe sembrare paradossale è
quella inerente gli effetti nefasti, per taluni, che la democrazia
potrebbe arrivare a produrre. Il concetto è ambiguo e preoccupante.
Secondo analisti come Fukuyama le masse, proprio esercitando il loro
diritto di voto potrebbero portare al potere elementi deleteri o
macchiarsi di crimini orribili. Si tratta di una vera e propria
contraddizione in termini a cui gli apologeti della democrazia liberale
vanno incontro spesso, ossia, il fatto che proprio le masse votando
democraticamente hanno portato al potere capi come Hitler e Milosevic.
Per Fukuyama l’intervento internazionale è necessario quando ci si trova
in situazioni come queste. E’ un ragionamento pericoloso a mio avviso,
perché mentre da un lato mina il significato stesso di democrazia, o
comunque elimina totale legittimità al modo in cui viene intesa la
parola democrazia da parte delle élite dominanti del mondo,
dall’altro giustifica le ingerenze e le guerre preventive dai pericoli
cui i popoli non ‘illuminati’ potrebbero andare incontro votando
democraticamente (Fukuyama, 2005, pp.150-155). Allora ci si perdoni, ma
un dubbio pervade la mente di chi sta scrivendo queste righe: a cosa
serve la democrazia se proprio questa può portare a diventare non
democratica? Ma soprattutto, come si fa a giustificare democraticamente
un’ingerenza preventiva causata dall’uso stesso della volontà
democratica di un popolo? Da questo non ne consegue che la democrazia,
come viene intesa nella sua accezione liberale-liberista in realtà in
fondo non sia assolutamente democratica? Si pensi in fondo al fatto che
la ‘democrazia’ per eccellenza, ossia gli Usa rispettano molto più sul
piano internazionale stati come quelli della penisola araba che quelli
‘canaglia’ come l’Iran; e intanto i primi sono molto più tirannici,
diseguali e integralisti, rispetto allo stato persiano che mostra molto
più interesse pure per i bisogni del suo popolo e in cui il petrolio è
nazionalizzato. Allora francamente una cosa va detta: la democrazia
all’americana è una bufala, e per questo non va più rispettata.
C’è addirittura chi distingue all’interno del variegato insieme di
quello che si intende per ‘democrazia’ determinati livelli diversi l’uno
dall’altro, particolarmente interessante è il concetto di democrablanda,
ossia un sistema nel quale tutte le forme democratiche sono conservate,
ma l’esecutivo ha un peso preponderante con forme di adulterazione
economica e politica mantenute sconosciute alla popolazione e dove non
manca malfunzionamento e imprevedibilità della durata dei processi
(Politi, 2011, pp. 27-34). Direi in tutta sincerità che l’Italia si
trova in questa categoria, per quanto gli apologeti a priori della
nostra forma di governo non riusciranno mai ad accettarlo. In Norvegia
per due volte è stato chiesto se si voleva adottare l’euro con un
referendum e per due volte si è risposto di no. In Italia la politica ha
illuminatamente fatto il favore agli italiani di pensare e scegliere al
posto loro. Evidentemente la nostra democrazia funziona così bene da
riuscire a capire cos’è meglio per un popolo, risparmiandogli la fatica
di dover pure scervellarsi per capire cosa è preferibile e cosa non lo
è.
Una parentesi andrebbe pure fatta sul ruolo della cosiddetta ‘libertà
d’opinione’. Per essere utile un dogma non deve essere necessariamente
oggetto di un’adesione convinta e sincera. Deve intimidire i sudditi e
diffondere la convinzione che ogni affermazione contraria sarebbe
politicamente scorretta. Convinzione comune infatti è che nelle
‘democrazie’ si possa dire quello che si vuole, cosa che nelle
‘dittature’ non avviene o è mal tollerata. A mio avviso il primo
postulato innanzitutto non è assolutamente vero. Nelle ‘democrazie’
infatti non si può dire quello che si vuole, anzi, ci sono tutta una
serie di categorie intoccabili sulle quali non è possibile in realtà
dissentire. Un esempio può essere il popolo ebraico e il suo ruolo
storico, che oramai non è più analizzato in maniera obiettiva proprio
perché si è creato una sorta di muro protettivo nei suoi confronti e
tutta una mitologia dell’intoccabilità che non permettono di parlare in
maniera critica di alcuni aspetti [4].
Insomma, piano piano si stanno venendo a creare dei tabù ideologici
mascherati di umanitarismo. Ma la stessa cosa si potrebbe dire di altre
‘categorie protette’ come gli omosessuali, ma la lista sarebbe lunga. In
fin dei conti pare quasi che l’ ‘evoluzione’ in corso stia portando ad
una situazione nella quale le masse sono sempre più criminalizzate, e in
cui solo le minoranze sono apparentemente tutelate, con un
atteggiamento che ha più a che fare con le modalità con le quali ci si
cura delle specie animali in via di estinzione, piuttosto che con uno
spirito di reale rispetto. Nell’altare del politicamente corretto i
diritti di pochi diversi si scoprono irrimediabilmente più importanti di
quelli di milioni di uomini formica, il cui unico privilegio diventa
solo quello di emigrare dalla propria terra. In tutto questo le
minoranze si prestano al gioco perverso del potere, che le usa a suo
piacimento per mantenere lo status quo. In Francia Hollande ha
vinto le elezioni anche per l’appoggio dei gruppi gay, ma la sua
politica si sta dimostrando sostanzialmente fallimentare e allineata al
modello neoliberista. Quindi, che la libertà d’opinione nelle
‘democrazie’ sia sempre presente non è un dato di fatto. Se è per questo
non si può neanche insultare il presidente della Repubblica, perché se
no in teoria si può finire in carcere.
Adesso andrebbero spese alcune parole anche sul ruolo della violenza
nelle società ‘democratiche’: essa è sempre condannata dalle autorità, e
pure repressa; le manganellate le da la polizia iraniana ma pure quella
inglese e italiana. Idea diffusa nei regimi nostrani è quella per cui
‘manifestare il dissenso è permesso, ma in forma pacifica’. Quest’idea,
ripetuta da molti politici come un mantra è la dimostrazione chiara che
non viviamo in una democrazia, anzi. Questo dogma necrotico ripetuto in
maniera ridondante fa chiaramente capire che determinate questioni prese
altrove possono solo essere messe in discussione, ma tanto andranno
fatte lo stesso. Allora mi si perdoni, ma dove sta la libertà?
Nell’esprimere la propria opinione? E se poi non si può cambiare il
corso di scelte già prese, magari senza averlo chiesto alla maggioranza,
a cosa serve dire quello che si pensa [5]?
Tutto ciò è paralizzante a livello cerebrale perché da un lato fa
pensare a molta gente di vivere in un posto più democratico e libero
rispetto ad altre parti del mondo, dall’altro demonizza ogni tentativo
di ottenere miglioramenti in maniera extralegale (miglioramenti che
comunque la legge non permetterebbe di avere, proprio perché le
decisioni non sono state prese mediante consultazioni). Insomma il
postulato per cui si può dire quello che si vuole, ma in maniera
pacifica non solo è il frutto di un pensiero unico, ma è anche ipocrita [6].
Insomma, tutte le tirannidi storicamente sono state abbattute proprio
con il ricorso alla violenza. Sembra quasi che questo sia stato
dimenticato. Anzi, tale pensiero è stato abbandonato proprio perché la
maggior parte delle persone ha interiorizzato, dopo essere stata
istruita per bene per una vita, che valga la pena fare così tanti
sacrifici in nome di non si capisce più bene quali valori. Già in Grecia
è l’ ‘eurogendfor’ che si occupa di ‘discutere’ con i manifestanti: al
più presto pure gli italiani potranno fare conoscenza con la nuova
Gendarmeria Europea.
Il cinismo di molti leader europei e americani è un fattore che fra
qualche anno potrebbe essere studiato nei manuali di psichiatria come
una piaga storica paragonabile ai dittatori del ’900. Il solito non
pensante può dire che tale idea sia esagerata. Ma la storia insegna che
sono sempre state le masse ad appoggiare -o comunque non levare dal
potere- despoti e tiranni; quindi quanto valga l’opinione di chi giudica
esagerate certe argomentazioni lo si può capire dal fatto che nella
storia ci sono sempre state cinismo e crudeltà. Pensare che oggi gli
uomini e le loro azioni possano essere migliori e più illuminate è
un’idea bigotta che possiamo lasciare ai venditori di illuminismo da
quattro soldi. Questo ovviamente non significa giustificare il
terrorismo (eticamente nauseante e autolesionista anche perché
controproducente a livello materiale), ma neanche pensare che la
violenza coincida sempre con esso. Direi quindi che sarebbe necessario
interiorizzare la massima cristiana (alla Tolstoij) per la quale
rispondere al male con il male non solo è rivoltante moralmente ma anche
sbagliato a livello tattico perché produce martiri pure tra gente piena
di colpe, ma al contempo rifiutare a prescindere l’idea di poter
combattere qualcosa senza ricorrere alla violenza: essa un domani potrà
essere una necessità. Se quindi da un lato gli eccessi di violenza alla
lunga sono controproducenti per i motivi prima elencati, anche l’etica
eccessivamente pacifista lo è, proprio perché paralizzante. Si ricordi
che se gli uomini non avessero fatto mai ricorso alla violenza ancora
vivrebbe in condizioni aberranti. La violenza quindi non è sempre
sbagliata, anzi a volte.
[1]
Per esempio nell’ultimo anno durante gli avvenimenti in Siria gran
parte delle immagini e delle informazioni pervenute in Italia
provenivano dalla parte degli insorti, mai nessuna da parte dei soldati e
dei civili fedeli ad Assad; nei terribili video di guerra girati dai
‘ribelli’ una delle frasi ripetute come un mantra dai protagonisti dei combattimenti è stata Allah Akbar,
e poi ci si lamenta del terrorismo islamico, dopo che lo si
sovvenziona. Quasi stesso identico copione per tutte le altre
(contro)rivoluzioni che hanno investito il Maghreb. Per quanto
riguarda il conflitto in Libia inoltre la cosiddetta informazione
occidentale ha mostrato tutta la propria mancanza di serietà e
obbiettività, decidendo già prima dell’inizio del conflitto da che parte
stare e quale parte screditare nonostante la mancanza di prove circa i
presunti episodi di ferocia, le ipotetiche stragi di civili e le fosse
comuni di cui non si è avuta alcuna traccia (Cadalanu, 2011,
pp.209-214), e si badi bene, questa non è un’apologia di Gheddafi, ma
sicuramente il conflitto lo hanno iniziato quelli che vennero definiti i
ribelli, e i crimini di cui si sono macchiati non sono mai stati
accennati da nessun grande media italiano. Se vivessimo davvero in un
paese libero questa guerra non sarebbe mai stata presentata in termini
così assoluti. Evidentemente la nostra stampa non è libera, bisogna
prenderne atto. Certo tutte le altre informazioni discordanti circolanti
su web non sono state occultate, ma tanto questo non cambia nulla dato
che le operazioni (in parte giustificate in seguito all’ondata emotiva
successiva ai non comprovati crimini del regime) sono avvenute lo stesso
e il dittatore ha fatto la fine che conosciamo. La mancanza di
bilanciamento tra realtà fattuale e modalità con le quali vengono date
le notizie dipendono sicuramente dai gruppi di interesse che stanno
dietro i media da un lato, ma dall’altro proprio dal meccanismo perverso
che non ha il tempo di verificare quanto sia vera una notizia, problema
che risale ai primi del ’900 (Casillo et al., 1997, pp.15-23).
[2]
Sul consenso e sulla possibilità di mobilitare risorse hanno sempre
giocato un ruolo determinante l’informazione e la propaganda da un lato,
la contropropaganda, la disinformazione e la destabilizzazione
dall’altro (Jean, 2003, p.78).
[4]
È scandaloso ad esempio che vi siano sempre più persone che collegano
l’essere contrari all’occupazione israeliana in Palestina
all’antisemitismo.
[5]
Si pensi al caso per il Muos a Niscemi. Ne segue che lo stato condanni
ogni atto di sabotazione dei lavori, ma di fatto quello che subisce è la
conseguenza di qualcosa che ha scelto senza il consenso delle
popolazioni residenti in loco.
[6] Ovviamente gli assertori della real politik possono
anche ridere delle istanze morali di alcuni studi. Ma purtroppo per
loro c’è chi è ancora convinto che rovinare gli altri non torni neanche
troppo utile, oltre ad essere riprovevole.
Questo articolo è un estratto della tesi di laurea di Gabriele Bonfiglio, che ringraziamo.
Se questo articolo ti è piaciuto non perderti il libro di Giuseppe Cirillo: Libertà Indefinita, prossimamente acquistabile su internet e in 1.500 librerie.
ARTICOLI CORRELATI
Nessun commento:
Posta un commento