Il nuovo strumento d’investimento
Fsi, il fondo strategico in cerca di strategia
Lo scopo di Fsi? Aiutare i pesi medi. Le reti e le utility. Il sogno del polo italiano del lusso
Ora
arriva un altro mezzo miliardo dal Kuwait: il fondo sovrano del paese
del Golfo Persico investe nel fondo sovrano dell’Italia, creando una
holding controllata per l’80% dal Fsi e per il 20% da Kia che porta
denaro fresco. Un miliardo è giù venuto dal Qatar per una joint venture
50 e 50 chiamata “IQ made in Italy”. Altri 500 milioni li hanno messi i
russi di Rdif (Russian direct investment fund). L’attivismo del
presidente Giovanni Gorno Tempini e dell’amministratore delegato
Maurizio Tamagnini, ha raccolto buoni frutti in poco più di un anno. I
soldi ci sono, altri affluiranno seguendo la corrente. E a questo punto,
si pone la questione cruciale: per fare cosa? Il Fondo strategico
italiano ha una strategia?
Quando nacque nella primavera del 2011 per volontà di Giulio
Tremonti, allora ministro dell’economia, si era in piena polemica per
l’invasione straniera, in particolare francese: Lactalis aveva preso
Parmalat, LVMH si era ingoiata Bulgari e la Edf trattava l’acquisto di
Edison. Il Fsi, dunque, veniva alla luce come una sorta di diga, per
difendere i gioielli della nazione, prendendo come modello proprio il
fondo francese (Fond strategique d’investissement). Obiettivo un po’
velleitario perché mai e poi mai uno strumento del genere sarebbe stato
in grado di far fronte all’attacco di un grande gruppo finanziario o
industriale straniero.
Facciamo il caso di Loro Piana (il lusso è uno dei settori definiti
strategici nei quali il Fsi è deputato intervenire): come avrebbe
potuto pagare il prezzo di Arnault, pari a 38 volte gli utili? Per LVMH
può far senso perché punta a una valorizzazione del marchio una volta
inserito nella grande rete del colosso internazionale; sarebbe stato
irrealistico, anzi del tutto folle per un veicolo finanziario pubblico.
Perché non stiamo parlando di BlackRock o del private equity, ma di un
veicolo finanziario i cui azionisti sono la Cassa depositi e prestiti,
cioè il Tesoro al 77%, la Banca d’Italia al 20 perché ha girato la sua
quota di Generali (entro la fine del 2015 dovrà essere venduta e la
banca centrale scenderà al 5%). Più c’è un 2,5% di Fintecna che fa
sempre capo al governo.
L’azionariato del Fondo Strategico Italiano
Dunque, è apparso abbastanza chiaro fin dalle prime mosse che il
compito del Fsi non poteva essere di salvare le aziende italiane dallo
straniero. Occorreva una mission meno nazionalistica e meno velleitaria.
Per statuto può intervenire in aziende con un fatturato netto non
inferiore ai 300 milioni e almeno 250 dipendenti, quindi sono escluse le
piccole imprese. Ma la gamma di settori è molto ampia, forse persino
troppo. È chiaro, allora, che bisogna scegliere alcune linee guida.
Quali? In realtà il dibattito è ancora in corso, anche se alcune scelte
gli uomini del Fondo le hanno fatte.
La prima riguarda la struttura del sistema produttivo
Il declino della grande industria, ha lasciato una miriade di
nicchie importanti, anche ricche, nelle quali le imprese riescono ad
avere posizioni leader sul mercato internazionale. Ma giunte al punto in
cui debbono compiere un salto dimensionale, o si ritraggono chiudendosi
nella loro "tana” o deperiscono. I fondi di private equity non sono
interessati a sostenerle, sono troppo piccole. Il venture capital in
Italia praticamente non esiste e comunque non fa per loro. Le banche non
rischiano. Ecco che può entrare in campo uno strumento come il Fsi.
L’investimento in Valvitalia (valvole) con il 49,5% e Kedrion
(trattamento del plasma) con il 23,2 va in questa direzione.
La seconda direttrice punta verso le utilities (elettricità, acqua, gas)
Qui c’è davvero una prateria. A parte poche eccezioni, le aziende italiane che fanno capo ai comuni, sono da ristrutturare, risanare, rafforzare, quotare possibilmente in borsa; soprattutto vanno maritate. Il processo di aggregazione è inevitabile se vogliono sopravvivere. Gli stessi enti locali che finora hanno colmato i buchi nei loro bilanci, non hanno più le risorse per continuare con il solito andazzo. L’intervento in Hera è un segnale chiaro di interesse, anche se minimo. Siamo solo alle prime mosse.
Qui c’è davvero una prateria. A parte poche eccezioni, le aziende italiane che fanno capo ai comuni, sono da ristrutturare, risanare, rafforzare, quotare possibilmente in borsa; soprattutto vanno maritate. Il processo di aggregazione è inevitabile se vogliono sopravvivere. Gli stessi enti locali che finora hanno colmato i buchi nei loro bilanci, non hanno più le risorse per continuare con il solito andazzo. L’intervento in Hera è un segnale chiaro di interesse, anche se minimo. Siamo solo alle prime mosse.
Terzo punto fermo le reti
La Cassa depositi e prestiti è già diventata il punto di snodo delle reti di pubblica utilità con Terna (elettricità) e Snam (Gas). Si discute se scorporare anche la rete telefonica in vista di creare la banda larga o l’alta velocità nel trasporto dei dati. Il Fsi è interessato a partecipare, anche perché controlla l’unica rete italiana a fibra ottica con Metroweb della quale possiede il 46,2 per cento.
La Cassa depositi e prestiti è già diventata il punto di snodo delle reti di pubblica utilità con Terna (elettricità) e Snam (Gas). Si discute se scorporare anche la rete telefonica in vista di creare la banda larga o l’alta velocità nel trasporto dei dati. Il Fsi è interessato a partecipare, anche perché controlla l’unica rete italiana a fibra ottica con Metroweb della quale possiede il 46,2 per cento.
C’è poi il sogno di creare un polo italiano del lusso
Il modello resta naturalmente LVMH anche se a mille miglia di distanza. L’ipotesi di prendere Versace, voleva essere un passo in questa direzione. In fondo, Arnault ha cominciato impadronendosi di un marchio come Vuitton attorno al quale ha costruito il resto. Ma per il momento il Fsi si è ritratto sommerso da una valanga di critiche e ha lasciato spazio al private equity.
Il modello resta naturalmente LVMH anche se a mille miglia di distanza. L’ipotesi di prendere Versace, voleva essere un passo in questa direzione. In fondo, Arnault ha cominciato impadronendosi di un marchio come Vuitton attorno al quale ha costruito il resto. Ma per il momento il Fsi si è ritratto sommerso da una valanga di critiche e ha lasciato spazio al private equity.
E come si inserisce in questo schema Ansaldo energia? Non si
inserisce. È stato un favore a Finmeccanica. Se il Fsi vorrà mantenere
integro il proprio profilo e la propria missione (cioè un intervento
della mano pubblica a sostegno e non in sostituzione della mano
invisibile) dovrà trovare un partner e uscire. Ma non sarà facile, il
fondato timore è che il Fondo vi resterà invischiato e non si tratta
certo di una piccola impresa, anzi è il più consistente degli
investimenti fatti, insieme all’operazione Generali. Anche questa è una
partita di giro: la Banca d’Italia ha collocato il suo pacchetto presso
il Fondo il quale dovrebbe cederlo l’anno prossimo. Probabilmente
ricaverà un bel profitto visto il nuovo dinamismo del Leone di Trieste.
Entrambe le vicende, Ansaldo e Generali, dimostrano quanto sia
forte la tentazione di usare il veicolo pubblico per togliere le
castagne dal fuoco al Tesoro. E’ il vizio di fondo di tutti questi
strumenti d’intervento diretto dello stato. Nascono con in testa
l’economia mista secondo il modello di Alberto Beneduce: fare quel che
il mercato non può o non sa più fare, risanare le imprese, rilanciarle e
ricollocarle poi sul mercato. Ma ben presto la terza via scompare, si
ricongiunge con l’autostrada statale. Che garanzia c’è che il Fsi non
faccia la stessa fine?
Un antidoto è la presenza di partner stranieri e di altri fondi
sovrani. Forse la Cassa depositi e prestiti finirà per diventare una
nuova Iri, nonostante il presidente Franco Bassanini e l’ad Giorno
Tempini giurino che non accadrà. Ma così non dovrebbe essere per il più
importante dei suoi bracci operativi che ha assorbito una cultura
diversa, quella della finanza globale, anche se la declina per "pubblica
utilità", dove pubblico non sta per statale, ma per interesse del
sistema Italia. E’ una distinzione sottile, che qualcuno potrà definire
da filosofia scolastica. A questo punto, solo la verifica alla luce dei
fatti e dei risultati potrà decidere se è vera o solo un’illusione.
Dal mondo del private equity arriva un acuto mal di pancia. Quella
del Fondo emanazione della Cdp sarebbe concorrenza sleale verso altri
operatori finanziari, in quanto andrebbe a incidere su operazioni che di
strategico (almeno per l’Italia) hanno poco, in più con soldi pubblici.
Secondo quanto lamentano diversi player finanziari, Fsi sta infatti
partecipando ad aste e processi di vendita di quote di aziende con il
vantaggio di non chiedere regole di governo societario definite e
stringenti. Un caso emblematico sarebbe l’asta di vendita di una quota
di minoranza di Versace: Fsi valuta la maison della moda 1,1 miliardi e
nello stesso tempo lascerebbe abbastanza mano libera nel governo
societario alla famiglia, storicamente poco propensa a condividere le
strategie di gestione con altri soci. Malumore ha suscitato anche
l’acquisto di una quota del gruppo pavese Valvitalia (attivo nella
produzione di componenti per il settore oil) o la partecipazione nei
supermercati lombardi Finiper. Fin qui siamo al borbottio di concorrenti
sconfitti. Ma sono davvero operazioni di sistema? Lo è l’investimento
in Eataly di Oscar Farinetti? Al Fondo sostengono di essere interessati
in funzione di una crescita con quotazione in borsa. Tuttavia dubbi e
sospetti anche legati al ruolo di Farinetti tra i Renzi boys rischiano
di alimentare polemiche ed equivoci. Il che dimostra ancora una volta su
quale filo di rasoio si muova uno strumento dalla doppia natura come un
fondo sovrano.
I nuovi apporti arabi e russi debbono ancora trovare uno sbocco
concreto. L’accordo con Rdif prevede un investimento paritetico fino a
un miliardo di euro per gli investimenti che possano contribuire alla
promozione della cooperazione economica tra Italia e Russia ed è tutto
da implementare. Nel caso del Qatar, da poco più di un anno è operativa
la joint venture IQ Made in Italy capitalizzata con 300 milioni di euro,
versati per il 50% ciascuno da Qatar Holding e da Fsi per investimenti
nei settori moda e lusso, arredo e design, alimentare e turismo, con
l’obiettivo di arrivare al massimo a 2 miliardi di euro di capitale.
L’intesa, però, al momento non ha ancora prodotto nessun investimento.
Il Kuwait porta quattrini, ma non intende partecipare direttamente alla
loro gestione. È chiaro che non fa nulla per nulla, quindi vuol vedere
dei risultati se non a brevissimo termine, certo almeno dopo un anno. La
gestione di queste nuove risorse, dunque, sarà il momento della verità
sia per le capacità manageriali degli uomini del Fsi sia per testare le
reali opportunità che oggi offre il mercato. Ma soprattutto si capirà se
il Fondo riuscirà a sfuggire alla tabe statalista che si porta dietro.
Il portafoglio del Fondo Strategico Italiano
(investimento in Sia in via di definizione)
(investimento in Sia in via di definizione)
Nessun commento:
Posta un commento