Il “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro (1981)
La Repubblica Italiana,
orfana della leva monetaria ceduta alla BCE già alla fine degli anni
‘90 e totalmente vincolata, per quanto concerne la leva fiscale, agli
impegni improvvidamente assunti con il “Patto di Stabilità e crescita”
del 1997, con il “Trattato di Lisbona” del 2007 e con il “Patto di
bilancio europeo” o “Fiscal Compact” del 2012, da molti anni ha rinunciato a qualsiasi forma di sostegno alla domanda aggregata, con effetti macroeconomici deleteri.
È noto che secondo la dottrina di
Keynes, per ogni punto di spesa pubblica in più il c.d. “moltiplicatore”
incrementa il PIL in modo più che proporzionale rispetto allo stock di
debito, di modo che il rapporto debito/PIL migliora. Per ogni punto di
spesa pubblica in meno, invece, il c.d. “moltiplicatore” riduce il PIL
in modo più che proporzionale rispetto allo stock di debito, di modo che
il rapporto debito/ PIL peggiora.
Un recente studio del Fondo Monetario
Internazionale a cura di Nicoletta Batini, Giovanni Callegari e Giovanni
Melina conferma che un taglio della spesa pubblica dell’1% del PIL
provoca un calo del PIL fino al 2,56% per l’Eurozona, del 2% per il
Giappone e del 2,18% per gli Stati Uniti. Per l’Italia si va dall’1,4%
all’1,8%.
I dati storici della finanza pubblica italiana degli ultimi
tre anni confermano decisamente questo assunto. Se il governo Berlusconi
aveva lasciato un rapporto debito/PIL del 120,10%, le politiche di
austerità dei governi Monti e Letta hanno sensibilmente peggiorato tale
rapporto portandolo, secondo le stime OCSE per il 2014, al 134,2%.
Una politica economica espansiva, al contrario, non solo avrebbe prodotto effetti virtuosi
sul rapporto debito/PIL, ma avrebbe anche cagionato un aumento del
gettito tanto delle imposte erariali, quanto della contribuzione INPS,
in conseguenza dell’accrescimento della base imponibile.
In tal modo, sarebbero stati superflui gli aumenti della pressione fiscale e i tagli alla spesa pubblica,
in particolare le immancabili riforme della previdenza con relativo
aumento dell’età pensionabile, nonostante un bilancio INPS la cui tenuta
di lungo periodo è stata confermata anche nel febbraio 2014
dall’Istituto.
Le politiche di austerità, a livello
teorico, su fondavano sul noto studio del 2010 di Rogoff e Reinhart sul
rapporto tra crescita e debito pubblico, clamorosamente confutato dal
successivo studio di Thomas Herndon, Michael Ash e Robert Pollin
dell’Università di Amherst del Massachusetts.
In Italia, i sostenitori dell’austerità
si sono basati anche sull’errato argomento secondo cui il debito
pubblico dipende da un eccesso di spesa pubblica. Per quanto concerne,
ad esempio, la spesa per il pubblico impiego, un recente studio ha
dimostrato che la quota di dipendenti pubblici in Italia è solo
del 5,8% sul totale della popolazione, contro il 9,2% del Regno Unito e
il 9,4% della Francia.
Ma l’argomento più forte è sempre fornito dai dati storici: dal 1991 al 2008, l’Italia ha costantemente registrato un “avanzo primario”, cioè una differenza tra entrate e spese dello Stato, al netto degli interessi, in attivo. L’attuale stock di debito pubblico si è formato negli anni ’80 esclusivamente in conseguenza
di un evento storico ancora poco conosciuto, ma di fondamentale
importanza nella storia economica e politica dell’Italia unitaria: il
famigerato “divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro”.
Fino al 1981, l’Italia godeva di una
piena sovranità monetaria garantita dalla proprietà pubblica
dell’istituto di emissione, “ente di diritto pubblico” ai sensi della
legge bancaria del 1936, controllato dallo Stato per il tramite delle
“banche di interesse nazionale” e degli “istituti di credito di diritto
pubblico”. Dal 1975 la Banca d’Italia si era impegnata ad acquistare tutti i titoli non collocati presso gli investitori privati.
Tale sistema garantiva il finanziamento della spesa pubblica e la
creazione della base monetaria, nonché la crescita dell’economia reale.
Lo Stato poteva attingere, fino al 1993,
a un’anticipazione di tesoreria presso la Banca d’Italia per il 14%
delle spese iscritte in bilancio e deteneva, fino al 1992, il potere
formale di modificare il tasso di sconto.
E’ peraltro degno di nota che fino al 1981, contrariamente al luogo comune che la vorrebbe “spendacciona” e finanziariamente poco virtuosa, l’Italia aveva la quota di spesa pubblica in rapporto al PIL più bassa tra gli Stati Europei:
il 41,1% contro il 41,2% della Repubblica Federale Tedesca, il 42,2%
del Regno Unito, il 43,1% della Francia, il 48,1% del Belgio e il 54,6%
dei Paesi Bassi. Il rapporto tra debito pubblico e PIL era fermo nel
1980 al 56,86%.
Il 12 febbraio 1981 il Ministro
del Tesoro Beniamino Andreatta scrisse al Governatore della Banca
d’Italia Carlo Azeglio Ciampi una lettera che sancì il “divorzio” tra le
due istituzioni.
Il provvedimento, formalmente
giustificato dall’intento del controllo delle dinamiche inflattive
generatesi a partire dallo shock petrolifero del 1973 e susseguente
all’ingresso dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo (SME), ebbe effetti devastanti sulla politica economica italiana.
Dopo il divorzio tra Banca d’Italia e
Tesoro, lo Stato dovette collocare i titoli del debito pubblico sul
mercato finanziario privato a tassi d’interesse sensibilmente più alti.
In conseguenza di ciò, durante gli anni ’80 si assistette a una vera e
propria esplosione della spesa per interessi passivi.
Se alla fine degli anni ’60 essa si assestava poco sopra il 5%, nel 1995
aveva raggiunto circa il 25%.
Il tasso di crescita della spesa per
interessi tra il 1975 e il 1995 fu del 4000%. In valori assoluti, la
spesa per interessi passivi, sostanzialmente stazionaria fino a
quell’anno, passò dai 28,7 miliardi di Lire del 1981 ai 39 dell’anno
successivo, fino ai 147 del 1991. Negli anni ‘80 il rapporto tra spesa
pubblica e crescita del PIL fu praticamente stabile. Il deficit salì
invece, proprio nell’anno del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro
(1981), al 10,87 % rispetto al 6,97% del 1980, mantenendosi su tale
valore per tutto il decennio successivo.
La crescita del deficit annuo
rispetto al PIL, derivante dalla spesa per interessi passivi, portò in
pochi anni il rapporto debito/PIl dal 56,86 del 1980 al 94,65% del 1990,
fino al 105,20% del 1992. Tale rapporto, nonostante le
politiche di austerità degli ultimi 20 anni, non è diminuito ma è
rimasto stabile fino alla crisi finanziaria del 2008.
I dati macroeconomici della crescita del deficit e del debito rispetto al PIL, non dipendendo da aumenti della spesa corrente o per investimenti; essi sono interamente imputabili alla spesa per interessi passivi esplosa in conseguenza del divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro, il cui ruolo nella crescita dello stock di debito pubblico fu ammesso dallo stesso Andreatta nel 1981: “Naturalmente
la riduzione del signoraggio monetario e i tassi di interesse positivi
in termini reali si tradussero rapidamente in un nuovo grave problema
per la politica economica, aumentando il fabbisogno del Tesoro e
l’escalation della crescita del debito rispetto al prodotto nazionale.
Da quel momento in avanti la vita dei ministri del Tesoro si era fatta
più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio
del mercato”.
Come riconosciuto da Andreatta, il divorzio nacque come “congiura aperta” tra Ministro del Tesoro e Governatore della Banca d’Italia, “nel presupposto che a cose fatte, sia poi troppo costoso tornare indietro”. Esso segnò una tappa
importante in quel processo eversivo della nostra Costituzione
economica, iniziato nel 1979 e culminato tra il 1992 e il 2002 con la
firma del Trattato di Maastricht e la definitiva introduzione dell’Euro.
Una nuova concezione della politica economica
non più indirizzata verso i valori sociali fondamentali del moderno
Stato nazionale sovrano, ovvero la tutela della sovranità nazionale, la
piena occupazione e l’estensione della sicurezza sociale, ma unicamente
verso principi quali l’indipendenza delle banche centrali, la “stabilità dei prezzi”, il “pareggio di bilancio” e la “banca universale”
dedita simultaneamente all’attività di deposito e risparmio da un lato,
e di speculazione finanziaria dall’altro.
Una concezione economica in
cui il ruolo centrale non è più quello dello Stato Nazionale Sovrano, ma
quello delle banche, ormai titolari incontrastate del controllo della
leva monetaria in un sistema in cui la “moneta bancaria” soppianta la
“moneta statale” e in cui la speculazione finanziaria muove un giro
d’affari pari a molte volte il PIL delle principali Nazioni del mondo.
Nell’anno del fallimento di Lehman
Brothers e dell’inizio della più devastante crisi economica della nostra
storia, il rapporto debito/PIL italiano era al 106,09%, per poi
superare in pochi anni il 130%. La crisi ebbe origine nell’espansione
abnorme del mercato dei derivati, dei mutui immobiliari e della finanza
speculativa privata, ormai affrancata dai vincoli che sotto il regime
dell’abrogato “Glass-Steagall Act” americano e della legge bancaria
italiana del 1936, vietavano l’esercizio congiunto dell’attività
bancaria di deposito e risparmio da un lato e di speculazione
finanziaria dall’altro.
Immancabile fu il conseguente contagio nei
confronti della finanza pubblica, indotto da un triplice ordine di
fattori: la decisione dei governi occidentali e del Giappone di
impiegare, a spese dei contribuenti, l’enorme somma di 30.000 miliardi
di dollari per il salvataggio delle banche private; l’effetto “spread”
sui titoli di Stato nei paesi periferici dell’eurozona, in conseguenza
del c.d. “ciclo di Frenkel” generatosi a seguito dei differenziali
inflattivi interni all’area valutaria non ottimale dell’Eurozona; i
contraccolpi negativi delle politiche di austerità, con conseguente
riduzione del PIL, della base imponibile e del gettito fiscale.
Si osservi per inciso che mentre ai
Governi è preclusa ogni forma di spesa a deficit, in nome del controllo
dell’inflazione e della stabilità dei prezzi, sull’altare del
salvataggio delle banche si bruciano somme pari a diverse volte il
valore del PIL di una grande Nazione industriale, senza che peraltro
questo comporti spirali inflattive di sorta.
Ed è opportuno rammentare
che il controllo dell’inflazione fu il pretesto usato per il
divorzio tra Banca d’Italia e Tesoro nel 1981, benché fosse già allora
chiaro che non è l’offerta di moneta a generare inflazione,
almeno nella misura in cui l’incremento della base monetaria va a
finanziare spese di investimento e a movimentare risorse economiche
reali non utilizzate, ma è la crescita dei prezzi dovuta a fattori
esogeni (negli anni ’70, lo shock petrolifero del 1973 e la nuova
politica dell’OPEC) a generare una crescita della base monetaria.
Senza
tenere conto che un’inflazione non elevata, ma più alta di quella
attuale consente allo Stato di finanziarsi in regime di “repressione
finanziaria”, ovvero a un tasso più basso di quello di inflazione.
Gli Italiani devono prendere
coscienza, come cittadini e come Nazione, che tutti i giudizi sommari e
incompetenti sulla storia economica italiana recente, regolarmente
propinati da stampa, televisione e politici alla popolazione, sono
completamente smentiti dai reali dati storici e dalle statistiche
macroeconomiche.
Dalla fondazione della Repubblica al Trattato di Maastricht, l’Italia fu per quasi cinquant’anni il primo Stato al mondo per crescita economica, diventando negli anni Ottanta la quinta potenza economica mondiale per Prodotto Interno Lordo in valori assoluti.
Ciò avvenne grazie alla proficua
sinergia tra l’iniziativa imprenditoriale privata e gli investimenti
pubblici nelle industrie a partecipazione statale, nelle grandi
infrastrutture nazionali e nello stato sociale.
Ma la chiave di volta del miracolo italiano fu il pieno
controllo della “leva monetaria” e della Banca d’Italia da parte del
Ministero del Tesoro, nel quadro della normativa dettata dalla legge
bancaria del 1936.
Un sistema destinato a sgretolarsi nel
trentennio successivo alla famosa lettera di Andreatta del 1981, con i
drammatici risultati che oggi noi constatiamo.
Nessun commento:
Posta un commento