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lunedì 27 gennaio 2014
MONETA DEL POPOLO, TASSE ZERO
Entrambe le risposte sono
degne di nota solo per il tasso di ambiguità da cui sono permeate.
Infatti, in primo luogo, stupisce che tutte e due le risposte sul punto relativo alla proprietà
della moneta, al momento della sua
emissione, si rifugino in una
dichiarazione negativa, affermando che questa non spetta alla Banca d’Italia: affermazione questa, forse volutamente elusiva,
ma che, tuttavia, non può sfuggire all’accusa
di menzogna per ciò che essa non può non sottintendere.
Posto infatti che la moneta (al momento della sua creazione ed emissione) non può non avere, come tutti i beni mobili, un proprietario, deve trarsi la conclusione che, in quel
preciso momento la moneta, se
non è della Banca d’Italia, è di proprietà dello Stato. Ma
ciò contrasta in modo irrimediabile con quanto riconosciuto dagli stessi
rappresentanti del Governo (...) vale a dire la percezione di un utile monetario da parte di un Ente che non è proprietario della moneta che crea ed immette in circolazione. Tanto più che, per tutta la durata della
circolazione, la moneta rappresenterebbe un debito della Banca d’Italia; una passività che la abilita ad inserirla nel proprio bilancio tra le poste passive.
Ne deriva che, caso unico, la moneta sarebbe fruttifera nelle mani dell’Istituto di
Emissione, benché questo non ne sia proprietario, ma anzi debitore. Mentre, quindi, nei casi normali, il creditore percepisce
interessi dalla moneta che presta, ed è il debitore che
paga questi interessi, nel caso in esame, le posizioni
appaiono stranamente invertite.
Con un debitore che, anziché pagare, percepisce
gli utili. Il fatto è che, nel
concreto, la verità risiede proprio nel secondo corno del dilemma: nel senso che la Banca d’Italia ritiene di essere
proprietaria della moneta che crea ed emette. Lo
sostiene lo stesso Istituto proprio nel giudizio civile promosso dal professor Auriti; infatti, nella comparsa di costituzione e
risposta, datata 20 settembre 1994, si legge: «alla stregua
della puntuale disciplina della funzione di emissione, i biglietti della Banca d’Italia costituiscono una semplice merce di proprietà della Banca Centrale, che ne cura direttamente la stampa e ne assume
le relative spese» ... «Essi
acquistano la loro funzione e il valore di moneta solo nel
momento logicamente e cronologicamente successivo, in cui la Banca d’Italia li immette nel mercato trasferendone la relativa proprietà ai percettori». E ancora: «La Banca d’Italia cede la proprietà dei biglietti, i quali, in tale momento, come circolante, vengono
appostati al passivo nelle scritture contabili dell’Istituto di Emissione, acquistando in contropartita, o ricevendo in pegno, altri beni o valori mobiliari (titoli, valute, ecc.) che vengono, invece, appostati all’attivo».
Ora, poniamo il caso di un falsario che dia in prestito il risultato della propria
illecita attività, che a lui non costa nulla se non le spese di fabbricazione; nel fare il bilancio finale dell’operazione, vi iscrive forse come posta passiva la somma falsificata e prestata, e come posta attiva la somma restituitagli oltre agli interessi? Così facendo, altererebbe il bilancio, perché la somma falsificata che dà in prestito non costituisce una
perdita, così come peraltro non
rappresenta un guadagno; inserendola nel passivo, il falsario non
farebbe altro che occultare fraudolentemente una parte dell’attivo.
Tanto per continuare nell’esempio, se il falsario dà in prestito
la somma falsificata di un
miliardo di lire al tasso del
quindici per cento e, alla scadenza convenuta ha, in restituzione, la somma di
lire (autentiche) un miliardo e centocinquanta milioni, il suo attivo è costituito da quest’ultima somma per
intero, ed il suo passivo dalle spese sostenute per la fabbricazione della moneta falsa. Mutatis mutandis, lo stesso concetto vale per la Banca d’Italia: certamente, qui, non si tratta di moneta falsificata, ma, come
si è detto, di moneta che, all’atto dell’emissione, non può avere ancora alcun
valore né di credito né di debito, perché destinata, solamente durante e a
causa della circolazione, a misurare il valore dei beni e ad
acquistare il connotato di misura del valore.
Perciò, la
Banca d’Italia non è legittimata ad iscrivere la moneta, che immette nella sua
circolazione, come posta passiva del suo bilancio.
A questo punto, ci si potrebbe domandare quale possa essere la
reazione dei vertici della Banca d’Italia a queste chiare e ineluttabili
considerazioni.
LA “RELIGIONE” DELLA BANCA D’ITALIA
Su questo argomento, desta veramente impressione il contenuto di
un articolo apparso su “La
Repubblica” del 1° giugno 1994, dal titolo di per se altamente significativo: “La religione di Bankitalia”. Questo articolo, scritto con accenti che
sembrano davvero ispirati al più cieco
fanatismo, dopo aver affermato che la continuità storica dello Stato italiano resta affidata alla Banca d’Italia assai più che alle altre istituzioni, rileva che “la
religione della moneta” deve rimanere integra nella sua ortodossia “al
servizio di una divinità altamente simbolica – quel biglietto di banca firmato dal Governatore,
che personifica il potere d’acquisto del cittadino – ma altresì una divinità che, se fedelmente servita,
è dispensatrice di beni, mentre quando viene tradita, si fa implacabilmente vendicativa”;
e più oltre che “i Governatori sono i sacerdoti addetti al suo
culto”, i quali “se non fossero pienamente indipendenti, e soggiacessero
a poteri esterni, la loro qualità liturgica verrebbe meno”.
Dunque, la dottrina di Montesquieu non è più attuale, perché
accanto al potere legislativo, al potere esecutivo ed al potere giudiziario, nei quali fu frantumato il potere assoluto dei sovrani
dopo la Rivoluzione Francese, ce n’é un “quarto”, il potere monetario.
Ma, mentre il potere esecutivo ed il potere giudiziario sono in una posizione di ineliminabile
subordinazione (almeno concettuale) rispetto al potere legislativo (...) il potere monetario, invece, non solo dev’essere autonomo, ma addirittura
aspira ad occupare e mantenere un ruolo di tutore dello Stato in materia di politica
monetaria, tanto da assumere, assecondando la mistica dell’articolo de “la
Repubblica”, persino la dignità e l’intoccabilità
di una religione, con i suoi misteriosi riti ed i suoi onnipotenti sacerdoti.
Si può legittimamente dubitare che questo “quarto
potere” abbia le carte in regola con la Costituzione della Repubblica Italiana,
o almeno col suo spirito informatore: la nostra Costituzione non
brilla certo per sinteticità, poiché, anzi, dopo aver trattato dettagliatamente nella prima parte della posizione del cittadino e, nella seconda,
della disciplina della società politica in tutte le sue espressioni, omette qualsiasi accenno, anche solo indiretto, al problema della moneta ed agli enti che ne dovrebbero regolare la politica nell’ambito
del sistema economico dello Stato. Quale significato può, pertanto, darsi al
silenzio dei costituenti italiani sulla Banca Centrale? Può, di fatto, il nostro Istituto di Emissione
riempire questo vuoto costituzionale, pur essendo legittimato da una produzione
di leggi soltanto ordinarie, che però non trovano nella Carta Costituzionale
alcun titolo che possa giustificare la loro appartenenza all’attuale
ordinamento giuridico nazionale, per quanto riguarda sia la posizione di potere assoluto della Banca d’Italia (...) sia il contenuto stesso di quel potere che, come si è visto, stravolge il concetto di proprietà con
riferimento alla moneta?
A queste domande è certamente difficile rispondere se non ponendo
in evidenza il carattere segreto,
misterioso, iniziatico
di tutto ciò che circonda
il problema della moneta, e che, riesce a far credere al popolo, in tema di moneta, una situazione
completamente opposta a quella reale.
Tutto ciò è quindi effetto di un vero e proprio disegno, cui presta determinante ausilio, per
disonestà o ignoranza, tutto un mondo di politici, di banchieri e di
opinionisti, che ha l’unico scopo di tener nascosta la verità.
Quella verità che, fin dal 1931,
aveva invece denunciato,
con accorato vigore, Pio XII con l’enciclica “Quadragesimo anno”, in cui scrisse: «Ciò che ferisce gli occhi è
che ai nostri tempi non vi è solo concentrazione della ricchezza, ma anche l’accumularsi di una potenza enorme, di una dispotica padronanza dell’economia in
mani di pochi, e questi sovente neppure proprietari, ma solo depositari e
amministratori del capitale, di cui essi dispongono a loro grado e piacimento.
Questo potere diviene più che mai dispotico in
quelli che, tenendo in pugno il denaro, la fanno da padroni: onde sono in qualche modo i distributori del sangue stesso di cui vive l’organismo economico, ed hanno in pugno, per così dire, l’anima dell’economia, sicché nessuno, contro la loro volontà, potrebbe respirare».
LA BANCA D’ITALIA SI APPROPRIA DI TUTTA LA
MONETA DELLA NAZIONE E L’ADDEBITA AL POPOLO
Sebbene nessun
testo legislativo dichiari a chi appartenga la proprietà della moneta al momento
della sua emissione, tuttavia la Banca d’Italia agisce come se ne fosse il
proprietario, dandola in prestito al sistema economico nazionale e, quindi, addebitandogliela: infatti il mutuo di un bene fungibile, qual è il denaro, dietro
corrispettivo di un interesse è facoltà di chi ne ha (o ne vanta) la
proprietà.
Inoltre, si è fatto notare che, ciò no-nostante, l’Istituto Centrale iscrive arbitrariamente l’importo
della moneta data in prestito tra le poste passive del suo bilancio, invece che tra quelle attive, alterando, in tal modo, a proprio vantaggio il bilancio stesso in misura evidentemente rilevante: infatti, è norma indiscutibile per una corretta
contabilità che il prestito di denaro debba
essere contabilizzato come credito, da inserire quindi all’attivo, insieme con gli interessi pattuiti.
Infine, si è anche posto in evidenza come l’inserimento della
moneta, all’atto della sua immissione nella circolazione, tra le poste passive
del bilancio della Banca d’Italia sia la conseguenza capziosa, e perciò ingannevole, di rappresentare la banconota come una cambiale (vale a dire come un debito, come una passività) in virtù della
nota formula sopra impressavi (“pagabile a vista al portatore”) che non ha più alcuna ragione di esistere, perché, essendo forzoso il corso delle banconote (non più garantite da alcun tipo
di riserva, tanto meno aurea), esse non possono essere convertite (“pagate”) in oro; cosicché,
nonostante quella ormai inutile formula, la banconota non può essere considerata come cambiale,
rappresentativa di un inesistente debito della Banca Centrale.
Finora si è più volte accennato al fatto che la Banca Centrale,
nel mettere in circolazione le proprie banconote mediante operazioni di
prestito al Tesoro dello Stato e di anticipazione al sistema bancario, in sostanza le addebita al popolo. Siccome
questo fatto rappresenta il
punto focale di tutto il problema monetario, è necessario che esso sia reso di agevole comprensione
anche per il lettore completamente a digiuno di tale problema nei suoi numerosi
profili.
Detto in modo molto schematico, accade che lo Stato, per il
perseguimento dei propri fini
istituzionali di carattere generale (difesa, pubblica istruzione, sanità,
giustizia, ecc.) e di carattere particolare (opere pubbliche), ha naturalmente bisogno di notevoli risorse finanziarie. Per procurarsi tali risorse ricorre o alla vendita dei propri beni patrimoniali (mediante le privatizzazioni) o demaniali (mediante le sdemanializzazioni), oppure al prestito (...) che costituisce una fonte di finanziamento costante e generale.
Esso si rivolge, detto in modo molto semplificato, in due direzioni:
– la prima, verso
gli stessi cittadini, ai
quali vengono offerti titoli di credito statali fruttiferi (buoni del Tesoro, bot, ecc.) in cambio di moneta;
– la seconda, verso la Banca d’Italia che, per garantire allo Stato le necessarie risorse
finanziarie, provvede a creare la moneta da mettere in circolazione.
La differenza tra i due tipi di prestito contratti dallo Stato
non è tanto di natura quantitativa, quanto di natura qualitativa, se così si può dire: infatti, mentre la Banca Centrale dà in prestito
allo Stato moneta creata dal nulla – moneta cioè priva di quel valore che solo la circolazione
potrà conferirle, e della quale essa si arroga, senza alcun fondamento
giuridico, la proprietà, i cittadini, in cambio dei titoli di Stato, forniscono invece i propri risparmi, costituiti da moneta di cui sono proprietari perché, essendo stata da loro accettata a titolo di pagamento, in essa è incorporato il sudore del loro lavoro.
Quindi, mentre il prestito concesso dai cittadini è frutto della
loro fiducia nello Stato e senza dubbio rappresenta per loro un rischio che
potrebbe vanificare anni di lavoro, invece, quello fornito dall’Istituto di Emissione è soltanto
segno della sudditanza dello Stato nei suoi confronti e del concreto esercizio di quella sovranità monetaria cui lo
Stato ha incredibilmente abdicato.
LA BANCA D’ITALIA PADRONA ASSOLUTA DELLA POLITICA
MONETARIA
Tralasciamo ogni riferimento al primo dei suddetti due tipi di
prestito, quello cioè contratto dallo Stato con i propri cittadini mediante l’emissione di titoli di
credito fruttiferi. In tale operazione, infatti, non entra direttamente in gioco o in discussione la sovranità dello Stato, poiché si tratta in definitiva di operazioni di natura
civilistica compiute da parti che, sebbene su piani diversi, agiscono ciascuna
nell’ambito di una propria autonomia e, soprattutto, della propria opportunità e convenienza economica.
Nel rapporto che viene a stabilirsi tra lo Stato
e la Banca Centrale, con l’emissione della
moneta bancaria (banconota), invece, si coglie in tutta la sua drammaticità la
rinuncia da parte dello Stato alla sovranità monetaria ed al conseguente
esercizio del potere di “battere moneta”; si avverte soprattutto la stranezza di una situazione che poteva trovare una valida giustificazione in altri
tempi, quando la moneta aveva un proprio valore intrinseco perché costituita da pezzi coniati in metalli
pregiati, o quando essa, pur rappresentata da simboli cartacei, aveva tuttavia una copertura nelle riserve
auree o argentee delle banche: allora era frequente che il re o
il principe (cioè lo Stato), non avendo a propria disposizione risorse finanziarie
(metallo pregiato) per sostenere, ad esempio, le spese di una guerra,
ricorresse ai banchieri per ottenere i necessari prestiti.
Ma nell’attuale momento storico, in cui la moneta è costituita
soltanto da un supporto cartaceo, privo di qualunque copertura aurea o
valutaria, non si comprende la ragione per la quale lo Stato debba richiedere ad un apposito istituto bancario privato il mutuo,
sempre oneroso, di banconote create dal nulla e prive quindi di ogni valore intrinseco, trasferendogli in tal modo, con la sovranità monetaria, non solo il potere di
emettere moneta, ma anche il governo di tutta la politica
monetaria, attraverso il quale, come
si è già esposto, non può non influirsi in maniera assolutamente determinante
su tutta la politica economico-sociale del Governo, nato dalla volontà
popolare.
Per ricorrere ad una esemplificazione estrema, ma, comunque sia,
idonea a far comprendere l’entità del problema, non si capisce perché non possa essere
posta in circolazione moneta statale (biglietto di Stato) anziché moneta bancaria (banconota), dal momento che, tanto, sia l’una sia l’altra
non sono garantite da alcuna riserva aurea o valutaria.
A cura del Dr. Franco Adessa
(Tratto da CHIESA VIVA - FEBBRAIO 2014)
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