Orban e le ricette vincenti (mal tollerate a Bruxelles)
La rivalità sorta con l’Europa affonda le sue radici nel rifiuto da parte di Orban di sottostare ai dettami economici “suggeriti” dalla Troika, o almeno di rispettarli a modo suo. Respinge l’intromissione da parte del FMI e delle sue misure di austerità per riportare il rapporto deficit/PIL al di sotto della fatidica soglia del 3% e attua invece iniziative profittevoli che non vadano a colpire – caso pressoché unico nell’UE – la classe media.
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A dispetto delle speranze degli europeisti e degli ammonimenti della Troika,
il popolo ungherese si tiene ben stretto il suo primo ministro Orban,
riconfermandolo con un plebiscito che gli garantisce nuovamente una
maggioranza schiacciante del parlamento di Budapest.
Non va oltre una
lieve crescita la formazione di destra Jobbik e si assesta sul
risultato di quattro anni fa anche la coalizione “moderata”, un fronte
che riuniva liberali, socialisti e verdi nel vano tentativo di fermare
il premier uscente.
Viktor Orban si gode dunque la meritata vittoria
frutto dei risultati conseguiti negli ultimi anni, che, pur convincendo
gli ungheresi, avevano fatto drizzare i capelli alle istituzioni europee
e d’oltreoceano a causa della cosiddetta “deriva autoritaria” del paese
magiaro, frettolosa definizione con cui è stata dipinta la riforma
costituzionale attuata dal premier nell’ultimo mandato
La rivalità sorta con l’Europa affonda
le sue radici nel rifiuto da parte di Orban di sottostare ai dettami
economici “suggeriti” dalla Troika, o almeno di rispettarli a modo suo.
Respinge l’intromissione da parte del FMI e delle sue misure di
austerità per riportare il rapporto deficit/PIL al di sotto della
fatidica soglia del 3% e attua invece iniziative profittevoli che non
vadano a colpire – caso pressoché unico nell’UE – la classe media; come
ad esempio quella di alzare la tassazioni sugli investimenti dei grandi
gruppi stranieri e non sugli stipendi o sui consumi dei cittadini.
Riporta così l’economia a crescere dopo una crisi che coinvolgeva il
Paese da ben prima di quella scoppiata nel 2008, guarda ad Est e stringe
importanti accordi commerciali con Kazakistan e Cina aumentando le
infrastrutture atte alla distribuzione delle merci dirette verso
l’Europa e si lega più forte a Mosca e quindi a Putin, con il quale
Orban ha instaurato cordiali rapporti di amicizia e una certa affinità
ideologica.
Con Gazprom che fornisce già all’Ungheria quasi il 90% del
totale di gas e petrolio a prezzi competitivi, i nuovi accordi prevedono
un prestito di 10 miliardi di dollari per ammodernare due reattori
dell’unica centrale nucleare ungherese da parte di Rosatom, l’agenzia
nucleare russa in grande espansione.
L’abbattimento dei costi energetici
costituisce il mantenimento di una delle grandi promesse di Orban e la
garanzia di competitività per l’economia ungherese; con la
disoccupazione che, non a caso, cala inesorabilmente ed il PIL che
arriva a crescere del 2,7 % nell’ultimo trimestre del 2013. Non male.
Ecco quindi come si spiega la netta
riconferma del leader ungherese, politico navigato e da sempre alfiere
della sovranità nazionale, tenace paladino dell’anticomunismo – in una
terra che più di tante altre subì l’atroce dominazione sovietica – ma
capace, oggi, di superare le antiche classificazioni volgendo lo sguardo
in modo distensivo proprio ai paesi un tempo appartenenti al blocco
socialista.
Senza lasciarsi attrarre dalle sirene liberiste e
liberaliste degli Stati Uniti, fatte proprie, come purtroppo spesso
accade, anche dall’Unione Europea.
Accanto alle coraggiose misure
economiche vi è infatti un profondo orgoglio nazionale insito nel popolo
ungherese e un desiderio di emancipazione da ogni singolo dettame di
Bruxelles, reso ancor più evidente dalla tanto esecrata riforma
costituzionale che ha dato una scossa ad un Paese ancora avvolto nel
torpore socio-economico provocato da decenni di comunismo.
Fra le misure
più contestate della nuova Magna Charta di Budapest – che va
ricordato, ne sostituiva una figlia ancora della dominazione russa e che
un’aggiustatina la meritava – l’aver stabilito la natura eterosessuale
del matrimonio, la maggior interdipendenza fra Stato e Chiesa, leggi più
dure contro l’accattonaggio e una riforma universitaria che vincoli gli
studenti meritevoli e vincitori di borse di studio a restare in
Ungheria per alcuni anni dopo la laurea, per non disperdere il capitale
umano del Paese in giro per il mondo.
Ma non solo, anche nel campo
istituzionale piovono critiche per la riforma elettorale che annulla il
secondo turno e per la decisione di dimezzare i seggi del parlamento
(che fanno gridare alla “deriva autoritaria”) e infine per un maggior
controllo sui media da parte di organi statali, per quanto votati dal
parlamento.
Se come si suol dire “sono i risultati a
parlare”, ecco che allora il popolo ungherese sembra esser più che
soddisfatto dell’operato del suo primo ministro, a dispetto di quanto
proclamato dai toni allarmistici dei leader europei.
L’opposizione tanto
agognata, quella d’ispirazione liberal e che attui senza fiatare
ogni singola politica promossa dall’Europa, non si vede all’orizzonte;
così come non s’intravede alcun pericolo totalitario per l’Ungheria che,
anzi, sembra emergere meglio di molti altri paesi all’interno del
pantano della crisi economica, non rinunciando per questo ad una
dignitosa sovranità nazionale che inorgoglisca il popolo.
In un’epoca in cui si parla solo di
diritti, ben venga anche chi ricorda alla sua gente, in maniera paterna,
come per crescere forti e sani ci si debba ricordare anche dei propri
doveri. E che a Washington e Bruxelles s’indignino pure.
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