lunedì 17 febbraio 2014

Esposto di Paola Musu sull’incostituzionalità dei vincoli europei


di Nicoletta Forcheri

Paola Musu : esposto alla Procura Generale della Corte dei Conti di Roma (e alla Corte Costituzionale) sull’incostituzionalità dei vincoli europei e delle privatizzazioni degli ultimi vent’anni, ivi compreso il DL Bankitalia


Attraverso un articolato esposto, vengono sollevate molteplici eccezioni di incostituzionalità, aventi ad oggetto un complesso corpus di normativa europea (dai trattati, alle direttive, regolamenti e decisioni) che incidono sulla politica economica e monetaria, ivi incluse le relative cessioni di sovranità, sino a comprendere l’introduzione dell’euro, l’unificazione bancaria, le privatizzazioni degli ultimi vent’anni circa, incluse quelle del sistema bancario, per arrivare all’ultimo decreto “bankitalia”.
Sulla base delle argomentazioni giuridiche formulate, viene chiesto al Procuratore della Corte dei Conti, previa rimessione, in via preliminare, degli atti alla Corte Costituzionale, perchè si pronunci sulla costituzionalità di tutta la normativa, nazionale e comunitaria, contestata, di valutare la sussitenza di un consistente danno arrecato all’erario per effetto della suddettta normativa e, qualora ravvisi profili di responsabilità contabile, si attivi al fine dell’accertamento della stessa e della refusione dei danni patiti a carico del bilancio dello Stato da parte dei soggetti eventualmente responsabili, con accesso, in base ai poteri propri della Procura della Corte dei Conti, anche a tutta una serie di atti (che vanno dagli ati relativi ai flussi monetari, a quelli relativi alla composizione del debito pubblico e sino agli atti preparatori delle decisioni del Consiglio europeo) a suo tempo coperti da divieto di accesso con decreto ministeriale del 1995.
Nell’atto si richiamano anche a supporto, oltre alle argomentazioni giuridiche, le dichiarazioni del Senatore leghista Garavaglia sul “ricatto” subito ai fini del voto di fiducia al Governo “Monti”, le dichiarazioni rilasciate dallo stesso Monti in un’intervista del febbraio 2011, nonchè alcuni articoli di quotidiani in cui viene riconosciuta da un lato la cessione di parti consistenti della sovranità in favore di soggetti finanziari di varia natura, nonchè alcune vicende che furono all’ombra dell’impennata degli spread nel 2011, con gli errori madornali di calcolo che furono fatti nell’ambito della manovra Monti.

Paola Musu, 16 febbraio 2014

P.S. : l’esposto è scaricabile per gli avvocati e i cittadini che volessero firmarlo e inviarlo a loro nome

ECCELLENTISSIMA CORTE DEI CONTI DI ROMA
PROCURA GENERALE
ESPOSTO
Il sottoscritto _____________, nato a _________ il ________, residente in _____________, Via ________ n.___, in cui elegge domicilio, tel/fax ______________, indirizzo e-mail: ___________________,
recependo il contenuto dell’ esposto a firma dell’Avv. Paola Musu del Foro di Cagliari, al quale chiede che il presente atto venga associato, dalla stessa depositato in data 13 febbraio 2014, con Protocollo Corte dei Conti 0000370-13/02/2014-AAPG-PG_ESP-A, unitamente all’Avv.Alessandro Eros D’Alterio del Foro di Napoli
PREMESSO
  • Che in palese contrasto e violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 9, 11, 36, 41, 42, 43, 47, 53 e 139 Cost., con l’ art.2 della Legge n.454 del 3 novembre 1992 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Maastricht), art.2 della Legge n.209 del 16 giugno 1998 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Amsterdam), art.2 della Legge n.102 del 11 maggio 2002 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Nizza), art.2 della Legge n.130 del 2 agosto 2008 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona), art.2 della Legge n.114 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria – c.d.fiscal compact), art.2 della Legge n.115 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione della Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE del 25.3.2011, (che modifica l’art.136 del TFUE) relativamente ad un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro), art.2 della Legge n.116 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità – c.d. MES), tutti nella parte in cui consentono l’ingresso nel nostro ordinamento delle norme di cui agli artt. dal n. 119 al n.136 (quest’ultimo, ulteriormente modificato dalla Decisione del Consiglio europeo di cui appena sopra) del TFUE, delle norme di cui agli artt. dal n.282 al n.284 del TFUE, delle disposizioni di cui ai Protocolli n.4 e n.12, allegati ai Trattati, e dell’integrale contenuto del Trattato istitutivo del MES (artt. dal n.1 al n.48 ed allegati I e II al Trattato), oltre all’art.3 della Legge n.116/2012 relativa alla copertura finanziaria degli obblighi derivanti dall’ordine di esecuzione di cui all’art.2 stessa legge; nonché l’art.2 della Legge n.1203 del 14 ottobre 1957 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Roma), nella parte in cuiconsente, in virtù dell’ attuale art.288 TFUE (già art.189 Trattato di Roma e, successivamente, art.249 TCE), l’ingresso nel nostro ordinamento dei seguenti Regolamenti: Regolamento (CE) n.1467/97 del Consiglio del 7 luglio 1997,; Regolamento (CE) n.1466/97 del Consiglio del 7 luglio 1997; Regolamenti nn.1173/2011, 1174/2011, 1175/2011, 1176/2011, 1177/2011, tutti del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011; Regolamento (UE) n.472/2013del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2013; Regolamento (UE) n.473/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, sempre del 21 maggio 2013 e della direttiva 2011\85\UE del Consiglio del 8 novembre 2011; Regolamento UE n.1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013 (recante disposizioni circa la c.d. “unificazione bancaria”); Decisione BCE/2010/23 del 25 novembre 2010 (abrogativa della precedente Decisione BCE/2001/16) e Decisione BCE/2010/29 del 13 dicembre 2010, queste ultime, oltre che per violazione degli articoli della Costituzione già richiamati in epigrafe, anche dell’art.70 Cost, in quanto atti emanati da un’istituzione finanziaria i cui organi decisionali sono di nomina individuale, senza previsione di alcun meccanismo di partecipazione democratica dei cittadini e comunque degli Stati; nonché con Legge n.433 del 17 dicembre 1997, seguita dai D.Lgs. n.43 del 10 marzo 1998, n.213 del 24 giugno 1998, n.319 del 26 agosto 1998 e n.206 del 15 giugno 1999 (recanti disposizioni attuative circa l’introduzione della moneta “euro”), è stata ceduta integralmente, a soggetti terzi esterni allo Stato, extra e sovra-nazionali, una componente essenziale della Sovranità dello Stato Italiano, quella economica e monetaria, nonché finanziaria, ivi incluso il potere di disposizione sul bilancio dello stesso Stato, cessione culminata, da ultimo, con l’adozione della norma di revisione costituzionale di cui alla Legge Costituzionale n.1 del 20 aprile 2012, di revisione degli artt.81, 97, 117 e 119 Cost, introduttiva dell’obbligo di pareggio di bilancio, già preceduta dalla Legge n.3 del 18 ottobre 2001, art.3, con la quale si è “preteso” “costituzionalizzare” i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali, senza esplicitarne l’imprescindibile subordinazione al rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano.
  • Che la normativa sopra citata, nonché il contesto complessivo, giuridico-economico, dalla stessa creato, ha finito con l’incidere in maniera pesantissima sulla capacità dello Stato di far fronte alle proprie esigenze di bilancio, da quelle più elementari a quelle costituzionalmente garantite, tanto da costringerlo ad un indebitamento oramai fuori controllo sui mercati finanziari ed in totale balia degli stessi, nonchè a ripetuti e molteplici interventi e manovre di finanza pubblica, anche, e spesso, infrannuali (specie di recente memoria) e con oramai manifesti sforamenti del limite di costituzionalità in termini di pressione fiscale, ed a programmi di privatizzazioni (dalla legge n.35 del 29 gennaio 1992 e, a seguire, con la legge n.474 del 1994 , di conversione del D.L. 332/94, la legge n.481 del 1995, nonché la legge n.287 del 1990 sulla concorrenza, e susseguenti provvedimenti di attuazione, sino ai più recenti interventi in corso di programmazione), che, oltre che in manifesto conflitto con gli artt. 41,42,43 e 47, piuttosto che essere risolutivi, non hanno fatto altro che appesantirne ulteriormente la situazione di indebitamento, oltre a privare lo Stato (quanto al patrimonio mobiliare ed immobiliare ceduto) sia di una insostituibile garanzia, sia di importanti fonti di entrate, sino alla totale perdita del controllo sul sistema finanziario e creditizio nazionale, e ciò sia per effetto della privatizzazione dei principali istituti finanziari di “interesse nazionale”, sia in conseguenza degli assetti proprietari venutisi a configurare all’interno della Banca d’Italia (a partire dalla legge n.35 del 29 gennaio 1992, per seguire poi con la legge n.82 del 7 febbraio 1992, il D.Lgs. n.43/1998 e la legge n.262/2005); perdita di controllo, inoltre, ulteriormente aggravata dalla rimodulazione degli stessi assetti proprietari di quest’ultima e dalla sua trasformazione in public company (di diritto anglosassone), come disposti dagli artt.4, 5 e 6 deldecreto legge n.133 del 30 novembre 2013 ( convertito con Legge n.5 del 29 gennaio 2014), . Si noti, inoltre, che il decreto, sul punto, si articola su due capisaldi: la rivalutazione del capitale sociale della Banca d’Italia da € 156.000,00 a 7 miliardi e mezzo di euro e la trasformazione della stessa secondo il modello societario ad “azionariato diffuso”, con l’introduzione della quota limite del 3% ad azionista. Mentre, da un lato, la suddetta trasformazione societaria comporta, in sostanza, la perdita totale di qualsiasi funzione di controllo sull’attività del credito ed il totale e definitivo svuotamento del carattere pubblico della stessa, così come costituzionalmente garantita e disciplinata (ciò proprio mentre al livello comunitario si interviene con il già sopra ricordato, e contestato, Regolamento UE n.1024\2013 sull’ “unificazione bancaria”), dall’altro si rileva come lo Stato, con un esborso minimo di € 156.000,00, corrispondenti al capitale sociale della Banca d’Italia (ora rivalutato a 7 miliardi e mezzo di euro in virtù del decreto), anche avvalendosi del comma 10 dell’art.19 della Legge n.262\2005 (puntualmente abrogato dall’art.6 del decreto legge n.133\2013), avrebbe potuto riacquistare la titolarità piena della Banca stessa e con essa acquisire gli enormi introiti, di indiscussa utilità per il proprio bilancio, derivanti dagli utili di emissione monetaria destinati in quota alla Banca d’Italia dalla BCE, sia per il presente, che per il passato (utili pregressi, se residui), che, soprattutto, per il futuro. Utili che, costituzionalmente, in quanto parte della sovranità monetaria ed, in definitiva, della sovranità stessa, devono spettare allo Stato italiano (art.1 Cost.). Quanto appena sopra, inoltre, in aperta violazione del principio costituzionale fondamentale di disciplina, coordinamento e controllo dell’esercizio del credito da parte della Repubblica, sancito dall’art.47 della Costituzione (strettamente interconnesso con gli artt.41,42 e 43 Cost) ed in aperta violazione, oltre che dei già ricordati artt. 41,42 e 43 Cost, nonché 1 e 11Cost., quanto al più recente D.L. n.133/2013, specie in riferimento agli artt.4, 5 e 6, in particolare, dell’art.77 Cost., per totale carenza del requisito imprescindibile di “necessità e urgenza”.
Quanto sopra premesso, si osserva in
DIRITTO
I vincoli imposti dalla normativa comunitaria sopra citata (nonché dalla normativa interna alla stessa correlata) al bilancio dello Stato ed, in definitiva, allo Stato, nella sua interezza istituzionale (ivi incluse le proprie articolazioni, anche locali e periferiche), sanciscono la totale privazione di ogni e qualsiasi sovranità in materia, la quale, di contro, per definizione, deve necessariamente, e né potrebbe in diritto essere altrimenti, essere riconosciuta espettare solo allo Stato come connotato essenziale e caratterizzante lo Stato stesso, come soggetto prima di tutto, e soprattutto, giuridico, oltre che politico ed economico, sia in un contesto nazionale, che internazionale e delle relazioni internazionali. Tali vincoli sono essenzialmente esemplificati e disciplinati dal gruppo di norme del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea (TFUE) di cui agli artt. dal 119 al 136 TFUE (recanti disposizioni in materia di politica economica e finanziaria) e di cui agli artt. dal 282 al 284 TFUE (recanti disposizioni sulla BCE) (come da numerazione conforme all’ultima versione consolidata dei Trattati seguita al Trattato di Lisbona) ed i Protocolli n.4 e n.12 (secondo l’ultima numerazione di cui alla Gazzetta Ufficiale dell’Unione Europea C83/201 del 30.3.2010) allegati ai Trattati, recanti, rispettivamente, lo Statuto del Sistema Europeo delle Banche Centrali e della Banca Centrale Europea e il Protocollo sulla procedura per i disavanzi eccessivi, recepiti e resi esecutivi in Italia a mezzo dell’ ordine di esecuzione accluso alle relative leggi di ratifica ed esecuzione dei rispettivi Trattati (di cui al dettaglio, e per la parte degli ordini di esecuzione stessi, come da specifica dettagliata in premessa, da intendersi ivi integralmente riportata), a partire, in modo particolare, dal Trattato di Maastricht in poi e, segnatamente, a seguire, con il Trattato di Amsterdam, il Trattato di Nizza, il Trattato di Lisbona, con l’intermezzo di svariati regolamenti, tra cui: Regolamento (CE) n.1467/97 del Consiglio del 7 luglio 1997, per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi e Regolamento (CE) n.1466/97 del Consiglio del 7 luglio 1997, per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche (anche noti come “Patto di Stabilità e Crescita”, poi trasfusi nel Trattato di Amsterdam); Regolamenti nn.1173/2011 (relativo all’effettiva esecuzione della sorveglianza di bilancio nella zona euro), 1174/2011 (sulle misure esecutive per la correzione degli squilibri macroeconomici eccessivi nella zona euro), 1175/2011 (che modifica il regolamento(CE) n.1466/97 del Consiglio per il rafforzamento della sorveglianza delle posizioni di bilancio nonché della sorveglianza e del coordinamento delle politiche economiche), 1176/2011 (sulla prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici), 1177/2011 (che modifica il regolamento (CE) n.1467/1997 per l’accelerazione e il chiarimento delle modalità di attuazione della procedura per i disavanzi eccessivi), tutti del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011, corredati dalla direttiva 2011/85/UE del Consiglio dell’8 novembre 2011, relativa ai requisiti per i quadri di bilancio degli Stati membri, complessivamente noti come “six pack”; questi ultimi sono stati poi consacrati nel Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance nell’Unione economica e monetaria (meglio noto come “Fiscal Compact”) firmato il 2 marzo 2012 e ratificato e reso esecutivo dall’Italia con Legge n.114 del 23 luglio 2012. Nella stessa data vengono ratificati e resi esecutivi sia la decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE (che modifica l’art.136 del TFUE relativamente ad un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro) con Legge n.115/2012, sia il Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di Stabilità – MES (Legge n.116/2012). A questi si aggiunge il più recente “two pack”, comprendente i Regolamenti (UE) n.472/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 maggio 2013, sul rafforzamento della sorveglianza economica e di bilancio degli Stati membri nella zona euro che si trovano o rischiano di trovarsi in gravi difficoltà per quanto riguarda la loro stabilità finanziaria, e Regolamento (UE) n.473/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, sempre del 21 maggio 2013, sulle disposizioni comuni per il monitoraggio e la valutazione dei documenti programmatici di bilancio e per la correzione dei disavanzi eccessivi negli Stati membri della zona euro, i quali prevedono un obbligo di sottoposizione alla valutazione preventiva dei disegni di legge di bilancio alla Commissione, i cui già consistenti poteri, opportunamente rafforzati, le consentono di imporre le modifiche ritenute opportune, anche in vista del raggiungimento degli obiettivi di bilancio (in particolare, per l’Italia, il pareggio strutturale nel 2015), nonché, sul piano strettamente finanziario e del credito, il Regolamento UE n.1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013, sull’unificazione bancaria europea e la Decisione BCE/2010/23 del 25 novembre 2010 (abrogativa della precedente Decisione BCE/2001/16) e Decisione BCE/2010/29 del 13 dicembre 2010 (con le quali la BCE dispone sia circa il calcolo e la distribuzione del reddito monetario, sia sull’attribuzione, alla BCE stessa ed alle banche centrali nazionali, delle passività associate al valore totale dei biglietti in euro), cui fanno da corollario, sul piano interno, l’adozione dellalegge n.35 del 29 gennaio 1992, per seguire poi con la legge n.82 del 7 febbraio 1992, il D.Lgs. n.43/1998 e la legge n.262/2005, per finire con gli artt.4, 5, e 6 del D.L. n.133\2013 (di cui in premessa). A tali atti vanno aggiunti: la Legge n.433 del 17 dicembre 1997, seguita dai D.Lgs. n.43 del 10 marzo 1998, n.213 del 24 giugno 1998, n.319 del 26 agosto 1998 e n.206 del 15 giugno 1999, con i quali è stata data attuazione all’introduzione dell’euro in Italia, nonché la Legge Costituzionale n.1 del 20 aprile 2012 di revisione degli artt.81, 97, 117 e 119 della Costituzione (introduttiva dell’obbligo di pareggio di bilancio), la Legge Cost. n.3 del 18 ottobre 2001, art.3, di revisione dell’art.117 Cost., nonché la normativa interna di riferimento relativa alle privatizzazioni, dallalegge n.35 del 29 gennaio 1992, alla legge n.474 del 1994 , di conversione del D.L. 332/94, la legge n.481 del 1995, nonché la legge n.287 del 1990 sulla concorrenza, e susseguenti provvedimenti di attuazione, e sino ai più recenti interventi in corso di programmazione.
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Il presupposto ideologico su cui sono stati costruiti i suddetti Trattati (da Maastricht in poi), e gli atti normativi europei e di diritto interno correlati, di cui, in via preliminare, si contesta la costituzionalità, si fonda sull’idea secondo cui il modello efficace per conseguire la crescita economica deve fondarsi sul “libero agire delle forze di mercato”, supportate dal coordinamento delle politiche monetarie ispirate al solo obiettivo di scongiurare i rischi di inflazione (vedi Gaetano Bucci – docente di Diritto Pubblico Università di Bari – in http://www.sinistrainrete.info/europa/2157-gaetano-bucci-bce-versus-costituzione-italiana-htlm). La politica economica imposta a livello comunitario agli Stati membri è stata, pertanto, totalmente impostata sul modello dell’economia di mercato aperta e in libera concorrenza. Per garantirne un preteso “adeguato funzionamento” è stata creata una moneta unica ed una politica di cambio uniche, il cui obiettivo principale è il mantenimento della stabilità dei prezzi (art.119 TFUE, già art.4 TCE). In questo modo, la politica monetaria (in aperta violazione dei principi di democrazia, sovranità popolare e della forma repubblicana dello Stato italiano (art.139 Cost)) è stata sottratta al controllo delle sedi rappresentative – sia nazionali che sovranazionali – ( cfr. anche Gaetano Bucci – ibidem), per conseguire, senza alcun impedimento, l’obiettivo della lotta all’inflazione, ritenuto indispensabile per affrontare la competizione nei mercati internazionali (elevata a dogma), e per ottenere una (pretesa) allocazione adeguata delle risorse (cfr.AA.VV.2003; Bifulco 2004; Chieffi; Lotito; Malatesta; Predieri; Repetto; da Gaetano Bucci, ibidem). Nel contesto della disciplina introdotta dai Trattati, ivi fermamente contestata, la BCE, in base al principio di indipendenza (art.130 TFUE, già art.108 TCE), non risponde del suo operato di fronte a nessuna assemblea rappresentativa.Purtuttavia, è stata dotata di poteri regolamentari, decisionali e consultivi (art.132 TFUE, già art.110 TCE) (si ricorda che in virtù dell’art.288 TFUE, regolamenti e decisioni sono atti di portata obbligatoria e immediatamente vincolanti), con cui, in palese violazione dell’art.70 della Costituzione (in virtù del quale la funzione legislativa appartiene collettivamente alle Camere),impone o sollecita l’adozione di indirizzi finalizzati a garantire la stabilità. Essa è stata dotata degli strumenti necessari per combattere l’inflazione, ma non dispone di alcuno strumento per combattere la recessione e la disoccupazione (cfr.Degni; Graziani 2006, da Gaetano Bucci, ibidem). La BCE e le banche centrali nazionali non possono finanziare gli enti pubblici o gli organismi statali (art.123 TFUE, già art.101 TCE), che restano pertanto privi dei canali di finanziamento necessari allo svolgimento delle politiche sociali e degli strumenti essenziali attraverso cui dare attuazione agli artt.2, 3, 4, 9, nonché 43 della Costituzione,costringendoli a finanziarsi sui mercati dei capitali, con grande vantaggio per le istituzioni della rendita finanziaria (cfr. anche Graziani 2000 pp.170,171, da Gaetano Bucci, ibidem). Il funzionamento dell’euro impedisce, inoltre, la possibilità di effettuare svalutazioni competitive, privando, quindi, i Paesi membri – specie quelli più deboli – di una risorsa essenziale per la crescita, col rischio di accrescere il loro differenziale e di provocare una “mezzogiornificazione” dell’Europa (Paggi 2012° p.21, da Gaetano Bucci, ibidem). Per di più, la competenza esclusiva riservata dalla normativa comunitaria all’organismo SEBC-BCE (Sistema Europeo delle Banche Centrali-Banca Centrale Europea), in materia di politica monetaria, comporta, inoltre, come necessario corollario normativo, che le sue prescrizioni unilateralicondizionano, in modo assoluto, anche lo svolgimento delle politiche economiche e sociali. Si richiama in proposito, a titolo esemplificativo, l’art.127 TFUE, il quale, dopo aver statuito che “l’obiettivo principale del SEBC (…) è il mantenimento della stabilità dei prezzi”, recita che “fatto salvo” questo obiettivo, il “SEBC sostiene le politiche economiche generali nell’Unione”. Pertanto, il SEBC, cui è affidata, in piena autonomia ed indipendenza, la conduzione della politica monetaria, deve perseguire l’obiettivo della stabilità dei prezzi con priorità rispetto agli obiettivi della politica economica, la quale, di contro, deve subire, imprescindibilmente, l’impatto condizionante delle decisioni monetarie. In questo contesto normativo comunitario, sia la politica monetaria, sia la politica di bilancio (originariamente rimasta, benchè solo formalmente, nella sfera degli Stati nazionali) sono state attratte a livello continentale, mediante il trasferimento delle funzioni monetarie alla BCE e l’apposizione di vincoli talmente stringenti alle politiche di bilancio, da privare, di fatto, gli Stati di qualsiasi potere di intervento (art.127 TFUE, già art.105 TCE, e comunque attraverso tutto il sistema di norme del Titolo VIII del TFUE, degli artt.282 e ss. e del Fiscal Compact, dei Protocolli nn.4 e 12, nonché del six pack e del two pack, già sopra citati), con totale perdita della propria sovranità economica, sia in termini monetari, che di bilancio e fiscali, nonché, in definitiva, anche, ed inevitabilmente, politici, con conseguente gravissima compromissione dei cardini del funzionamento della democrazia, specie nella forma repubblicana della stessa (art.139 Cost).
Il tutto nell’ambito di un complesso di misure che vedono la suddetta sovranità economica e, nei fatti, politica, degli Stati membri, trasferita ad un ristretto nucleo di poteri tecnocratici europei, racchiusi nel Consiglio europeo, Commissione, BCE, ECOFIN e Eurogruppo, oltre alla partecipazione (oramai richiesta in maniera esplicita dal trattato sul fiscal compact e sul MES) del FMI. Nell’ambito di questo ristretto consesso, un ruolo di centralità (specie in materia di misure di politica economica e sociale da adottarsi da parte dei Paesi) è riservato, dalla normativa comunitaria ivi contestata, alla Commissione, al FMI e alla BCE, i cui membri, di nomina individuale (e, per ciò che riguarda il FMI, benchè organo del tutto fuori dal sistema comunitario, purtuttavia, forzatamente catapultato all’interno dei meccanismi comunitari dalla normativa in questione) sfuggono a qualsiasi meccanismo sia di scelta che di controllo democratico ed il cui ruolo viene ulteriormente accentuato dai poteri ad essi conferiti (c.d. troika), oltre che nelle procedure per i disavanzi eccessivi di cui al Protocollo n.12, al c.d. six pack, agli artt.120 e ss. del TFUE (con particolare riguardo all’art.126 TFUE), al Fiscal Compact ed al c.d. two pack, anche nell’ambito del meccanismo di stabilità europea (c.d. MES), il cui Trattato istitutivo è stato ratificato e reso esecutivo dall’Italia con legge n.116/2012, e che, istituito in attuazione del modificato art.136 TFUE – Decisione del Consiglio europeo 2011\199\UE del 25.3.2011, resa esecutiva con legge 115\2012-) lungi dall’avere esiti “salvifici”, si configura, piuttosto, come un sistema di “usura di secondo livello”. Strutturalmente esso opera, difatti, si ricorda, come un ulteriore meccanismo di sottomissione degli Stati, i quali, costretti, in forza del trattato, a contribuire secondo quote imposte e incrementabili in qualsiasi momento dall’ente, in base alle sue necessità, dovrebbero usufruire dell’intervento del fondo, da loro stessi alimentato, chiedendo sostanzialmente indietro i loro fondi, dietro pagamento di interessi: così quegli stessi Stati, attraversati da condizioni di crisi economica, sono costretti ad indebitarsi ulteriormente per costituire quello stesso fondo (la quota dell’Italia è pari, attualmente e salvo incrementi, ad oltre 125 miliardi di euro, da versarsi al Fondo nell’arco di cinque anni. I relativi fondi sono reperiti dallo Stato italiano mediante emissione di Btp, dunque attraverso un aggravio di indebitamento, proprio mentre si pretende che lo stesso venga drasticamente ridotto, sino all’imposizione del pareggio di bilancio, ed esponenzialmente accresciuto dal pagamento degli interessi sui titoli di debito emessi), che, poi, se chiamato a salvarli, li indebiterà ancora (in quanto i fondi saranno erogati dietro pagamento di interessi), subordinando, oltretutto, il suo intervento, alla discrezione incontrollata di Commissione europea, BCE e FMI, nonchè all’adozione di politiche economiche notoriamente recessive e di impatto sociale fortemente negativo, che non farebbero che aggravare la propria posizione di insolvenza (vedi caso Grecia). Senza considerare, inoltre, che l’Esm (o Mes) ha la facoltà di operare sui mercati, investendo in prodotti finanziari (art.5 del Trattato istitutivo: “Nella realizzazione del suo obiettivo il MES è autorizzato ad indebitarsi sui mercati dei capitali con banche, istituzioni finanziarie o altri soggetti o istituzioni) ed esponendosi ad evidenti rischi di perdite, che potrà puntualmente coprire pretendendo integrazioni delle quote agli Stati aderenti, che saranno obbligati a versarle (pena pesanti sanzioni economiche e l’esclusione dal voto), trovandosi, così, ancor più affossati nella spirale del debito e con danni irrimediabili agli assetti interni di bilancio.
Ora, il testo costituzionale italiano, nella parte inerente i rapporti economici, contiene tre preziosi articoli che definiscono i tratti essenziali del rapporto tra Stato e sistema economico-produttivo, così come costituzionalmente intesi: gli artt.41, 42 e 43 ( vedi Lorenzo Dorato – Università di Roma Tre – in http://www.economiaepolitica.it/index.php/primo-piano/quelle-liberalizzazioni-incostituzionali/#.UgS_DW0I99Y), con l’ulteriore corollario dell’art.47, per ciò che concerne la tutela del risparmio e dell’esercizio del credito. Premesso il rilievo riservato dall’art.42, circa la garanzia della proprietà privata da parte della Repubblica ed il riconoscimento e la tutela, da parte della stessa, della sua funzione sociale, preme qui soffermarsi, nello specifico, sulla peculiarità degli artt.41 e 43 Cost. Nell’art.41, in particolare, dopo aver sancito la libertà dell’iniziativa economica privata, viene precisato, al secondo comma, che essa “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”. Chiude poi sancendo che “la legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata ai fini sociali”.
La traduzione sostanziale di questo terzo comma è stata la politica economica e industriale adottata dall’Italia dagli anni cinquanta alla fine degli anni settanta del secolo scorso, imperniata sul concetto cardine di programmazione economica. A tal proposito, preme sottolineare come nella Costituzione italiana non appare mai il termine “concorrenza”. La concorrenza ed il libero mercato non vengono cioè trattati come valori in sé da difendere, essendo considerati implicitamente null’altro che modalità specifiche (e non univoche) di funzionamento di un sistema economico. Al contrario, si fa esplicito richiamo al termine “programmazione” che, unito al riferimento al “coordinamento a fini sociali”, descrive in maniera chiara l’ispirazione sostanziale della politica economica nazionale del primo trentennio post-bellico, così come costituzionalmente dettata e, in ossequio alla Costituzione stessa, impostata. Tale programmazione, stando al dettato costituzionale, poteva avvenire anche attraverso la limitazione o l’eliminazione della libera concorrenza, affidando, ad esempio, (art.42 e 43 Cost.) l’esclusiva della produzione, in determinati ambiti del sistema economico, allo Stato (monopolio pubblico legale, art.43 Cost) (vedi Lorenzo Dorato, ibidem). Sempre nel contesto delineato dall’art.41 Cost, rientra la previsione costituzionale della tutela del risparmio, nonché la disciplina, il coordinamento ed il controllo dell’esercizio del creditocostituzionalmente riservati allo Stato in forzadell’art.47 Cost., proprio in virtù della funzione sociale riconosciuta insita negli stessi. Pertanto, sempre in conformità ed in attuazione del dettato costituzionale, come sopra illustrato, laddove non eliminata (tramite il monopolio legale), la concorrenza, nell’ordinamento economico italiano, agisce e viene costituzionalmente concepita, quindi, per lo più come forza limitata istituzionalmente, proprio al fine di evitare alcuni fenomeni ritenuti, sempre costituzionalmente, indesiderabili, quali: l’eccessiva concentrazione del capitale (favorita proprio dall’azione della competizione libera); la perdita di professionalizzazione dei mestieri; determinate forme di destabilizzazione del sistema economico; la denazionalizzazione del capitale. Tutti effetti cui stiamo puntualmente assistendo. Più che una forza da incentivare (vedi sempre Lorenzo Dorato, ibidem), la libera concorrenza viene quindi intesa dal legislatore costituente come una forza potenzialmente destabilizzante, fonte di squilibri e disuguaglianze che va in ogni caso, se non corretta, comunque incanalata in un ottica di programmazione economica ispirata a fini generali. Il tutto in un’ottica funzionalmente intesa e strettamente interconnessa alla realizzazione dei principi ed obiettivi fondamentali ed essenziali di cui agli artt.2, 3, 4 e, di nuovo, 41 Cost. Entro la cornice giuridica e istituzionale dell’Unione europea è divenuto impossibile per lo Stato italiano esercitare la propria sovranità discrezionale (di cui è, in forza della Costituzione, irrinunciabilmente ed imprescindibilmente investito) sulla politica economica e industriale, con inevitabili ripercussioni anche, e soprattutto, in funzione degli equilibri del proprio bilancio. Il suo ruolo, come quello degli altri Stati membri, specie dell’area “euro”, è difatti ridotto a quello di garante del buon funzionamento della concorrenza sul mercato, cui si aggiunge un residuale Stato minimo assistenziale di cornice. Si tratta indiscutibilmente di un quadro che confligge in maniera stridente con il testo e lo spirito della Costituzione economica italiana (vedi ancora Lorenzo Dorato, ibidem). Quanto sopra, ricordato che, se il nostro diritto interno è cedevole di fronte al diritto comunitario, quest’ultimo non può derogare o superare “i principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale e i diritti inalienabili della persona”. Regola, questa, affermata dalla Corte Costituzionale sin dalla sentenza n.170 del 1984 e ribadita costantemente nel tempo con le sentenze n.168 del 1991, n.232 del 1989, n.170 del 1984, n.183 del 1973, n.98 del 1965 e ordinanze n.536 del 1995 e n.132 del 1990, nonchè, da ultimo, con sentenza n.284 del 13 luglio 2007 (oltre che con precedente ordinanza n.454 del 2006).
Rilevata, pertanto, la manifesta incostituzionalità dei vincoli di bilancio imposti dall’assetto normativo-istituzionale economico e monetario comunitario, irrimediabilmente viziati da incostituzionalità risultano anche gli artt.81, 97, 117 e 119 Cost., come modificatidalla Legge Cost. n.1 del 20 aprile 2012 e dalla Legge Cost. n.3 del 18 ottobre 2001, art.3: richiamando, infatti, Mortati (cfr.Mortati, “Istituzioni di diritto pubblico” vol.II, pagg.1224 ss., Padova 1976, vedi L.Barra Caracciolo, ibidem), si ricorda che le norme costituzionali provenienti dal procedimento di revisione  sono subordinate alle norme della Costituzione “originarie” cioè provenienti dal costituente (“entità assolutamente orginaria, creativa in grado primario dell’ordinamento“), pertanto, tutti i principi generali sono immodificabili in sede revisionale componendo la “forma repubblicana”.  Quindi l’art.139 Cost. rende inevitabilmente sindacabili anche le norme di revisione alla luce dei precetti originari della Carta, caratterizzanti la “forma repubblicana” intesa come Repubblica democratica fondata sul lavoro.
E ciò vale,  quindi, a maggior ragione, per le norme europee, di qualunque fonte, coperte dall’art.11 Cost. (o che si pretende di coprire con lo stesso), per loro natura sempre subordinate alle norme costituzionali “originarie”: a titolo esemplificativo (vedi Mortati, da L.Barra Caracciolo, ibidem),si citano il fiscal compact, o il MES o i Regolamenti e gli articoli del TFUE e i Protocolli più sopra elencati. Sulla Legge costituzionale n.1/2012 e n.3/2001, art.3, in particolare, si osserva, ulteriormente, (vedi anche Gaetano Bucci, ibidem), che il compito della revisione costituzionale è solo quello di emendare singole norme che richiedono un adeguamento agli sviluppi della vita sociale e della democrazia. Le procedure emendative non possono, tuttavia, essere utilizzate per sostituire i principi concernenti l’indirizzo politico, economico e sociale della Costituzione con quelli, ad esempio, difesi ed enfatizzati da ordinamenti liberal-liberisti, come quello dell’Unione Europea (vedi d’Albergo, da Gaetano Bucci, ibidem). I principi fondamentali che caratterizzano la forma di stato democratico-sociale, costituiscono, pertanto, un’ipotesi di limite all’esercizio del potere di revisione costituzionale e, quindi, alla prevalenza del diritto comunitario sul diritto interno. Gli interventi, anche costituzionali (art.81, 97, 117 e 119 Cost), oltre che con svariate manovre finanziarie, tra cui il Decreto Salva Italia, il taglio sistematico degli investimenti pubblici, il progressivo esautoramento dello Stato sia dal settore imprenditoriale (il cui coinvolgimento è, come osservato, funzionalmente previsto dall’art.43 Cost), sia dal settore del credito, con il moltiplicarsi delle privatizzazioni e la progressiva consegna, anche in ambito comunitario, delle residue funzioni di controllo, e le altre misure, specie di natura fiscale, tra cui, di recente l’IMU, hanno già impattato in maniera talmente profonda e prolungata sul livello di occupazione e sulla domanda aggregata (Pil), da poter considerare pesantemente, se non addirittura strutturalmente, compromesse le funzioni costituzionalmente riservate allo Stato di garanzia di indirizzo dell’iniziativa economica verso obiettivi di “sicurezza, libertà e dignità umana” (art.41 secondo comma, Cost.) e verso “fini sociali”, tra i quali spicca certamente, in virtù degli artt.1 e 4 Cost., ed in stridente contrasto con gli obblighi derivanti dal dettato normativo comunitario, il perseguimento della piena occupazione (vedi ancora L.Barra Caracciolo, ibidem). La compromissione delle suddette funzioni, così come di quelle legate agli artt.2, 3, 9, 36, 42, 43, 47, 53 Cost., è oramai definibile come “strutturale”, proprio in funzione di quegli obblighi, di fonte comunitaria (ed interna, ma alla stessa riconducibili), nonché, ora, costituzionale, a seguito di revisione, ivi oggetto di contestazione. Di qui, si ribadisce, l’evidente incostituzionalità della legge Costituzionale n.1/2012, per evidente contrasto con gli artt.1,2,3,4,9,36,41,42,43,47,53 Cost., nonché della Legge costituzionale n.3 del 18 ottobre 2001 (riformante il titolo V della costituzione) laddove, all’art.3, modificativo dell’art.117 Cost., non subordina il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali al rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano.
Oltretutto, il suddetto impianto normativo-istituzionale economico e monetario, oltre che apertamente configgente col dettato costituzionale, nonché con lo spirito e la ratio dello stesso, risulta anche manifestamente inconsistente alla prova dei criteri i ragionevolezza e attendibilità.
Innanzitutto, risulta totalmente falsato il concetto, posto a base dell’intero suddetto impianto, di “stabilità finanziaria” di un paese. Esso è difatti pretestuosamente collegato dal legislatore comunitario al rapporto debito pubblico\Pil ed alla stabilità dei prezzi. Come confermato in uno studio condotto per il Fondo Monetario Internazionale da Nouriel Roubini e Paolo Manasse(inhttp://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2005/wp0542.pdf, “Rules of Thumb” for Sovereign Debt Crises, da Luciano Barra Caracciolo, ibidem), essa passa, invece, piuttosto, dal rapporto debito estero\Pil. Nel suddetto studio i due economisti rilevano che un paese possa andare incontro ad una prossima crisi finanziaria se supera il rapporto debito estero\Pil pari a circa il 55% (tabella 6 studio cit.); inoltre, in un altro paper Bartolini e Lahiri ( in http://www.imf.org/external/pubs/ft/wp/2005/wp0542.pdf, “Rules of Thumb” for Sovereign Debt Crises, da Luciano Barra Caracciolo, ibidem) definiscono che, di norma, ad indebitarsi con l’estero, solitamente e per la maggior parte dei casi, non è il settore pubblico, come inducono a credere le analisi degli “euro burocrati”, ma quello privatoe per ben due terzi (da Luciano Barra Caracciolo, ibidem). Inoltre, se si parte dall’analisi della relazione dei “saldi settoriali”: risparmio netto settore privato = deficit pubblico + saldo partite correnti, e si introduce il vincolo del deficit pubblico=0 (ossia l’obbligo del pareggio di bilancio), si ottiene che il risparmio del settore privato è pari al saldo delle partite correnti. Pertanto, se si vuole che nel settore privato venga rilevato un risparmio più elevato di quanto lo stesso consumi o investa (cioè a dire, più comunemente, il rilievo di segnali di crescita economica), questo non può che realizzarsi puntando sui mercati esteri, sfruttando la domanda estera di beni nazionali. Ciò comporta, inevitabilmente, una compressione della domanda interna (e quindi una riduzione delle importazioni) ed un miglioramento della competitività del prezzo dei prodotti, attuato, però, necessariamente, sfruttando gli effetti studiati dalla curva di Philipssull’incremento indotto della disoccupazione, unitamente al corollario della “precarizzazione”. Si ricorda che la “curva di Philips” dimostra, nei paesi a capitalismo avanzato, in particolar modo, una relazione inversa tra tasso di inflazione e tasso di occupazione, spiegando come politiche che perseguono intenzionalmente un incremento della disoccupazione, intendano, appunto, abbassare l’inflazione per aumentare la competitività esterna e l’export (cfr. Luciano Barra Caracciolo, ibidem). Implicita, ma eloquente, conferma della suddetta strategia si potrebbe rilevare nelle stesse parole del governatore della BCE Mario Draghi: “….if you enhance the competitiveness, you can actually count on your external demand, on your net exports” (http://www.ecb.int/press/tvservices/webcast/html/webcast_111208.en.html). L’evidente incostituzionalità di tali politiche e delle normative alle stesse correlate, anche e soprattutto in termini di conseguente aggravio dell’imposizione fiscale (per le evidenti necessità di “cassa”) oltre la soglia dei limiti di costituzionalità ex art.53 Cost, oltre che di impatto sull’occupazione (dunque sul lavoro) e sulla tutela dei risparmi (irrimediabilmente erosi), come ivi contestate, e degli effetti da esse perseguiti o, comunque, realizzati, specie alla luce del dettato degli artt.1, 2, 3, 4, 9, 36, 41, 42, 43, 47 e 53 Cost., è quantomeno incontrovertibile.
Nella sostanza, esse si traducono in un sistematico smantellamento del tessuto economico nazionale, che va a colpire la stessa tenuta dell’assetto istituzionale dello Stato, il quale, con la sottrazione della moneta, viene inoltre privato di risorse di finanziamento essenziali e della primordiale fonte delle stesse (la moneta ed i proventi legati alla sua emissione,fatti propri al SEBC dalla BCE, con autonome Decisioni BCE/2010/23 del 25 novembre 2010 (abrogativa della già precedente Decisione BCE/2001/16)e BCE/2010/29 del 13 dicembre 2010, moneta e relativi proventi che sia costituzionalmente, in virtù dell’art.1 Cost, sia anche solo in forza dello jus gentium, in virtù del principio di sovranità degli Stati, appartengono allo Stato), con riverbero, come più appresso dimostrato, sugli stessi conti del bilancio dello Stato, che invece pretenderebbero di risanare, e con effetti incontrovertibilmente destabilizzanti ed ai limiti (se non addirittura oltre i limiti) del sovvertimento dei cardini repubblicani e democratici dello Stato Italiano.
Totalmente falsato risulta inoltre il concetto del ruolo della moneta e della sua quantità (controllata, allo stato, dalla banca centrale europea) nell’economia, come concepiti nell’ambito dei fondamenti della teoria di Friedman e recepiti nell’impianto normativo istituzionale comunitario: contrariamente a quanto posto come assunto delle politiche monetarie ed economiche imposte, la moneta e la sua quantità non possono entrare, in realtà, nella determinazione di un livello di inflazione giudicato potenzialmente “ottimale”, come preteso in maniera palesemente erronea, dagli euroburocrati e dall’impostazione normativa comunitaria. Ciò perché i prezzi dei prodotti che compongono il paniere di riferimento, usato per la valutazione del tasso di inflazione stesso, non sono determinati dalla “moneta” (che, per sua essenza, misura semplicemente il valore condivisibile di scambio di un determinato bene), ma sono, piuttosto, il risultato di un processo complesso, nel quale interagiscono vari elementi ed in particolare i costi dei fattori produttivi, la domanda di quei beni, nonché il livello della tassazione sul consumo (o, più in generale, l’imposizione indiretta). Pertanto, l’assunto secondo cui la Banca Centrale stampando moneta per lo Stato a suo piacimento crei inflazione, non tiene conto essenzialmente del fatto che la banca centrale fornisce la liquidità richiesta dal sistema (c.d. natura endogena della moneta), secondo le esigenze del sistema stesso e non viceversa (vedi ricostruzione della teoria generale della moneta rinvenibile in http://goofynomics.blogspot.it/2012/10/le-ricette-veloci-di-giampiero-friedman.html  e in http://goofynomics.blogspot.it/2012/12/endogenous-money-for-dummies-part-2.html, cfr. Luciano Barra Caracciolo, ibidem).
D’altra parte, l’esperienza disastrosa della FED (1979-1982) e quella della BOE (1979/1984), criticamente analizzata da N.Kaldor, dopo Keynes il più importante economista della scuola di Cambridge, in “How monetarism failed” (1985), portarono poi all’abbandono, da parte della stessa banca centrale americana e di quella inglese, della politica monetaria di controllo del tasso di crescita della quantità di moneta in circolazione.
La BCE continua, invece, ad operare secondo il doppio pilastro, associando ad obiettivi di tasso di interesse a breve termine, anche quello di controllo della massa monetaria. Ciò benchè, dal punto di vista empirico (cfr. De Grauwe 2005, vedi L.Barra Caracciolo, ibidem), non risulta né nel lungo, né nel breve termine una significativa relazione tra crescita della moneta e crescita dei prezzi, almeno per le economie che non hanno manifestato fenomeni di high-inflation (superiore al 10%). Risulta inoltre molto lieve, se non assente, il legame tra crescita della moneta e crescita dell’output.
D’altra parte, l’esistenza di un certo margine per la spesa pubblica in deficit era indicata anche nei trattati di Maastricht, fissando al 3% il limite da non oltrepassare. Il deficit pubblico è infatti indispensabile per compensare cali di domanda che si possono verificare nel settore privato. Il problema potrebbe spostarsi piuttosto su quale sia il livello di deficit auspicabile e quanto stock di debito (somma dei deficit di più anni) sia sostenibile da parte di un singolo Stato. Ma anche qui, in realtà, il limite imposto dai trattati del 60% del rapporto tra debito e Pil non ha nessun supporto scientifico (sul punto si vedano, i notissimi studi di Sylos Labini-Pasinetti, quali verificati da Conti e Mastromatteo, http://growthgroup3.ec.unipi.it/contimas.pdf, nonchè da Corsi Guarini http://growthgroup3.ec.unipi.it/contimas.pdf; come pure lo studio di Buiter, Corsetti e Roubini del 1993, sulla estraneità dello stesso limite del 60% al debito pubblico sancito da Maastricht, “to ensure public sector solvency”, al punto da ritenere il limite in sé di ostacolo allo sviluppo dell’attività economica http://ideas.repec.org/p/cpr/ceprdp/750.html.Si veda pure lo specifico studio di Bagnai, “Keynesian And Neoclassical Fiscal Sustainability Indicators, With Applications To Emu Member Countries”,2005,vedi L.Barra Caracciolo, ibidem)
D’altra parte, già nel giugno del 1997, in prossimità della firma del Trattato di Amsterdam ed a ridosso della sottoscrizione dei Regolamenti nn.1466 e 1467 del luglio 1997 (più sopra citati), un centinaio di economisti europei sottoscrivevano un documento unico, in cui, preconizzandone con estrema chiarezza e lungimiranza il fallimento, rilevavano l’inconsistenza empirica dei pilastri su cui si è preteso di fondare l’unione monetaria europea (UEM)(riduzione dei disavanzi di bilancio = minore inflazione = crescita più sostenuta = maggiore occupazione), richiamando a supporto proprio gli studi di economisti come Akelorf, Dickens e Perry (1996), Barro (1995), Bruno (1995), Sarel (1996) e Stanners (1995). Tutti arrivavano alla medesima conclusione: “si tratta di tesi a cui non corrisponde verifica empirica”.
Ecco che la compressione inverosimile dei margini di manovra degli Stati, culminata nell’imposizione sostanziale del pareggio di bilancio, recepita oltretutto dall’Italia con norma di revisione Costituzionale di cui alla Legge costituzionale n.1 del 20 aprile 2012, finisce per impedire ai singoli Paesi di adottare quegli interventi anticiclici che permettono di affrontare eventuali crisi del settore privato, il tutto aggravato dalla attuale situazione di c.d. trappola della liquidità e con l’incipit oramai palese del avvitamento della recessione nell’ulteriore morsa della deflazione (per inciso, si ricorda come la c.d. trappola della liquidità si verifica quando il tasso di interesse si posiziona ad un dato livello minimo, sicchè gli operatori si aspetteranno un suo aumento, e non reagiranno per evitare di incorrere in perdite in conto capitale, qualsiasi sia l’offerta di moneta. In questo caso, nessuno intende acquistare titoli che fruttano un tasso di interesse troppo basso e la preferenza per la liquidità sarà assoluta. Il prezzo dei titoli e il tasso di interesse non varieranno al variare dell’offerta di moneta e la politica monetaria diverrà inefficace). Il complesso di queste condizioni, che finiscono per autogenerarsi le une dalle altre, finisce con l’alimentare, come in effetti sta alimentando, la situazione di crisi.
E difatti, nel Decreto Salva Italia (DL 201/2011), il governo italiano aveva enunciato l’obiettivo di ridurre il deficit pubblico per il 2012 all’1,6% del Pil e di annullarlo nel 2013 (0,5%), stimando, nel contempo, una flessione del Pil dello 0,4 nel 2012, seguita da una ripresa nel corso del 2013. Nella Nota di aggiornamento al Def del 20 settembre 2012, il quadro muta radicalmente. La Nota ammette che gli obiettivi di finanza pubblica per il 2012 verranno mancati: il deficit non sarà all’1,6% del Pil, ma superiore al 2,5% (Giorgio La Malfa e Pier Giorgio Gawronski in “Il Sole 24 Ore” del 15 novembre 2012).
La “correzione” dei conti pubblici, in cui l’introduzione dell’IMU è parte integrante, sta avendo effetti molto più gravi del previsto.
La Nota indica un rapporto debito-Pil al 126,4% (un anno prima il rapporto segnava invece il 120% ed oramai si è arrivati a toccare il 130% circa ( 128% agli inizi del 2013)) ed annuncia un crollo (-10,8%) degli investimenti fissi lordi in macchinari e impianti. E intanto, il Pil previsto in crescita al +0,3 viene stimato, sempre alla fine del 2012, in flessione dello 0,2 (-0,7 per il FMI): ma la caduta del Pil allontana il risanamento della finanza pubblica.
Secondo la Banca d’Italia (da Il Sole 24 Ore del 16 febbraio 2013 a firma di Giorgio La Malfa e Per Giorgio Gawronski)), nel 2012 il reddito nazionale è diminuito del 2,1% (secondo peggior risultato dal dopoguerra), ma secondo le prime stime dell’Istat è di -2,4% (sempre Gawronski e La Malfa ne Il Sole 24 Ore del 23 marzo 2013), e nel 2013 calerà ancora dell’1%, secondo la Banca d’Italia, dell’ 1,4% secondo Confindustria e dell’1,8 secondo Fitch; il reddito pro capite sarà inferiore del 10% a quello del 2007: una caduta senza precedenti in tempo di pace. Sempre nel 2012 l’occupazione è calata di circa 300.000 unità, ma i quasi 3.000.000 di disoccupati vanno aggiunti ai 500.000 lavoratori in Cig (+61%) e a quelli esclusi dalla Cig in deroga: ne emerge uno scenario catastrofico e le previsioni continuano ad essere riviste in peggio.
A consuntivo, non solo la caduta del reddito è cinque volte quella prevista, ma il deficit è maggiore di quello che sarebbe stato, secondo il Governo, il suo valore, in assenza di provvedimenti correttivi: in una parola, il modello basato sul binomio “Austerità e Riforme strutturali” non funziona ed un modello che sbaglia le analisi e le previsioni sbaglia anche le prescrizioni.
Un ulteriore particolare: sul piano più strettamente tecnico (Gawronsky e La Malfa, Il Sole 24 Ore del 15 novembre 2012), il dibattito si incentra sul valore numerico dei cosiddetti “moltiplicatori fiscali”, che indicano quanto incidono sul Pil le manovre di riduzione del disavanzo (e viceversa) e quale effetto di ritorno ha la variazione del Pil sul debito e sul rapporto del debito: più bassi sono i moltiplicatori meno pesanti gli effetti negativi delle manovre di austerità. Le stime dell’Europa collocavano i moltiplicatori fiscali nell’ordine dello 0,5 e su tale assunto sono state fatte le stime di previsione su cui si è basato il governo. Tuttavia, già nell’ottobre 2011 un rapporto “strettamente confidenziale” della UE (citato sempre da Gawronski e La Malfa nell’ articolo de Il Sole 24 Ore del 15 novembre 2012), prendeva atto del fallimento “imprevedibile” delle politiche della Troika in Grecia, mentre la Bundesbank (segnalano sempre i due autori), nel bollettino in ottobre, affermava che gli spread “non devono essere ridotti”, altrimenti si rischia di “mitigare e ritardare il processo di aggiustamento” della periferia d’Europa.
In realtà i moltiplicatori sarebbero ben più alti e compresi tra 1 e 3. Due stessi economisti del Fmi (Blanchard e Leigh) riconoscono che i moltiplicatori si modificano nel corso del ciclo economico e sono cresciuti rispetto ai valori storici. In una parola, è la stessa austerità che accresce i moltiplicatori, provocando effetti negativi non lineari e maggiori rispetto alle previsioni. Nella stima di essi, inoltre, di norma, non viene tenuto conto dell’impatto incrociato con le politiche di austerità nei diversi paesi europei: se così fosse, probabilmente si arriverebbe ad una valorizzazione degli stessi che evidenzierebbe chiaramente l’effetto boomerang di simili politiche.
Ciò vuol dire, che a causa di un macroscopico “errore di calcolo”, per giunta già noto agli “addetti ai lavori” (vedi riferimento al rapporto confidenziale di cui sopra), lo Stato Italiano si trova a dover pagare un incremento del rapporto debito/Pil (con conseguente “danno erariale” ) di circa dieci punti percentuali nell’arco di un solo anno.
L’articolo 1 della nostra Costituzione definisce l’Italia una “Repubblicademocratica fondata sul lavoro”, in essa lo Stato è dunque concepito come res publica, cosa che appartiene al popolo (Cicerone), e per giunta democratica (il potere, anzi, la summa potestas, appartiene solo ed esclusivamente al popolo (Montesquieu)). Essa attribuisce la titolarità della sovranità, in via esclusiva, al popolo, ben lungi dunque anche solo dall’ipotizzare la confluenza del potere in mani di un ristretto gruppo oligarchico (come concretantesi in fatto per effetto dell’assetto istituzionale creatosi all’interno dell’UE nel sistema Consiglio Europeo-Commissione-BCE-ECOFIN-Eurogruppo-FMI), individuato per nomina individuale e con la sterilizzazione di ogni possibilità di intervento democratico, come, allo stato, imposto per effetto della normativa comunitaria contestata. Il solo “esercizio” della sovranità, conformemente ai canoni di una democrazia parlamentare di tipo rappresentativo, viene dal popolo delegato al Parlamento attraverso il procedimento elettorale.
Questa “delega all’esercizio” della sovranità non include il potere di cessione della stessa, neppure in termini parziali: in una parola, tale delega non implica una “procura a vendere” e ciò a maggior ragione se risultassero confermate le dichiarazioni riportate in un articolo a firma di Franco Bassanini del Corriere della Sera del 23 agosto 2012, pag.42, in cui lo stesso ammette che “le cessioni di sovranità hanno avuto come destinatari o beneficiari soggetti non democratici, non trasparenti, non responsabili: banche d’affari multinazionali, shadow banks, hedge funds, agenzie di rating, fondi sovrani, organismi internazionali di regolazione non governativi… Le loro decisioni, spesso opache e non immuni da conflitti di interessi, limitano l’autonomia dei Parlamenti e dei governi nazionali, condizionano le politiche economiche e finanziarie, costringono ad adottare scelte non sempre lungimiranti”.
Tali affermazioni non possono considerarsi irrilevanti ai fini della custodia dell’integrità degli assetti costituzionali ed istituzionali dello Stato, specie avuto riguardo a Poteri che costituzionalmente e giuridicamente sono, per definizione, prerogativa esclusiva dello Stato.
L’unico articolo della Costituzione in cui sono ammessi interventi sulla sovranità è l’art. 11. Ma in esso non si parla di “cessioni”, bensì di “limitazioni”. La “limitazione” è di per sé un vincolo, che pur lasciando inalterata la titolarità di un diritto in capo al soggetto, ne limita l’esercizio secondo le condizioni o gli ambiti stabiliti dalla limitazione stessa, ma non, e mai, in modo così privativo da svuotare di contenuto il diritto stesso od il suo esercizio, specie nel suo contenuto essenziale. Ma la possibilità di consentire “limitazioni” della sovranità, viene rigorosamente ancorata dal legislatore costituente alla sussistenza di una condizione, dal contenuto prettamente finalistico. La condizione posta non può mai andare scissa dal fine statuito. E la condizione posta è quella della “parità con gli altri Stati”, finalizzata ad un “ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni”. L’articolo chiude dicendo che l’Italia “promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo”.
E come si conciliano tali indispensabili presupposti con la crescente conflittualità sociale, con il riaccendersi di forti nazionalismi e antichi rancori, tanto da rasentare temuti limiti di sostenibilità, con i disequilibri di azionariato interni alla BCE (che si traducono in posizioni di predominio in termini di scelte di politica monetaria), nonchè con l’immenso privilegio riconosciuto alla Francia con il Protocollo n.18, allegato ai trattati, con cui la stessa mantiene “il privilegio dell’emissione monetarianella Nuova Caledonia, nella Polinesia francese e a Wallis e Futuna alle condizioni fissate dalla sua legislazione nazionale e avrà il diritto esclusivo di fissare la parità del franco CFP”?.
Occorre, inoltre, considerare che quand’anche possa ipotizzarsi la sussistenza della ricordata condizione di “parità con gli altri Stati” (appurato che, comunque, non esiste, già solo in virtù del Protocollo citato) e della connessa finalità, qualunque “limitazione” (mai, “cessione”) deve essere confrontata con il resto dell’impianto costituzionale posto dagli altri articoli integranti i principi fondamentali della Costituzione, tra cui gli artt.1, 2, 3, 4, 9 e 36, 41, 42, 43, 47 e 53, concretizzanti l’indirizzo politico, economico e sociale della Costituzione, e con l’art l’art.139 Cost. Il che significa che nessun intervento sulla sovranità deve poter incidere, anche solo potenzialmente, sul “compito della Repubblica” di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”(art.3). Così come sulla garanzia, da parte della Repubblica stessa, dell’ “adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art.2), o sul riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro e sulla promozione delle condizioni che rendano effettivo questo diritto (art.4), o sulla finalizzazione sociale dell’impostazione di ogni politica economica, sia pubblica che privata, sulla garanzia e tutela costituzionali del risparmio e della proprietà, così come il controllo dello Stato sull’attività creditizia, e dunque bancaria (vedi art.47, primo comma, Cost) (di cui lo Stato si è incostituzionalmente privato, cedendolo integralmente alla BdI, uscita totalmente dal controllo statale e integrata nel SEBC, per effetto della normativa comunitaria, contestualmente alla cessione della propria sovranità monetaria al sistema SEBC-BCE e di cui il recente decreto legge n.133\2013, agli artt.4, 5 e 6, rappresenta l’ultimo corollario). Ma, soprattutto, mai alcun intervento sulla sovranità deve poter incidere, anche minimamente, sull’assetto repubblicano dello Stato (art.139 Cost.)
Ora, avendo perso, oltre ai proventi della gestione monetaria e del controllo sul sistema finanziario, anche le entrate assicurate al bilancio dello Stato dalle attività dello “Stato imprenditore” (mutuando l’espressione usata da Benito Li Vigni, collaboratore di Mattei), per effetto delle sconsiderate privatizzazioni (operate nell’ottica liberista imposta e di cui alla normativa richiamata già in premessa, oltre che nella presente espositiva in diritto), lo Stato è costretto da un lato a finanziarsi sui mercati, con grave danno per l’erario, a causa del peso crescente e matematicamente irriducibile degli interessi sul debito emesso (ed inevitabilmente emittendo) e dell’esposizione alla mercè degli speculatori, dall’altro ad elevare, oltre la soglia costituzionalmente consentita, il livello della pressione fiscale (ne è un macroscopico esempio l’introduzione dell’IMU di recente memoria).
In proposito è d’obbligo ricordare come il principio della “capacità contributiva”, così come espresso e sancito nell’art.53 Cost., nella sua formulazione approvata in via definitiva conformemente alla proposta avanzata in sede di lavori della Costituente dall’On.Edgardo Castelli, ha quale ineludibile ratio, ed imprescindibile fondamento, il principio della giustizia sociale. Quest’ultimo emerge e viene sottolineato ampiamente nell’ambito dei lavori della costituente, laddove chiaramente si evidenzia come “Non si può negare che il cittadino, prima di essere chiamato a corrispondere una quota parte della sua ricchezza allo Stato, per la soddisfazione dei bisogni pubblici, deve soddisfare i bisogni elementari di vita suoi propri e di coloro ai quali, per obbligo morale e giuridico, deve provvedere”. Oltre al fatto che è interesse dello Stato tenere sufficientemente elevati i redditi minimi, “per consentire il miglioramento delle condizioni di vita delle classi meno abbienti, che contribuisce al miglioramento morale e fisico delle stesse ed in definitiva anche l’aumento della loro capacità produttiva.”
Il suddetto principio di cui all’art.53 Cost., non può inoltre essere scisso, nella sua lettura ed applicazione, dagli articoli 2, 3, 42 e 47 Cost. già sopra ricordati. E’ evidentemente superfluo osservare che se un cittadino è costretto a intaccare i propri risparmi (sempre che gliene siano rimasti, vista l’erosione massiccia creata dall’illegittima ed incostituzionale aggressività fiscale degli ultimi anni), o addirittura ad indebitarsi per pagare imposte e tasse, quando non addirittura ad essere costretto a mettere in vendita beni di proprietà, o meglio a svenderli, viste le note condizioni di mercato, si è inopinabilmente in presenza di una chiara violazione del principio costituzionale della capacità contributiva, oltre che del principio costituzionale della tutela del risparmio in tutte le sue forme, nonché della garanzia e tutela della proprietà.
In ultimo si evidenzia, come gli interventi operati sul sistema creditizio e finanziario italiano, a partire dalla legge n.35 del 29 gennaio 1992, per seguire poi con la legge n.82 del 7 febbraio 1992, il D.Lgs. n.43/1998 e la legge n.262/2005, nonché con la sottoscrizione del Regolamento UE n.1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013 e, per finire, con il recente D.L. n.133 del 30 novembre 2013, artt.4, 5 e 6 (convertito nella Legge n.5 del 29 gennaio 2014), hanno totalmente sottratto al controllo statale il fondamentale settore del risparmio e del credito, precludendo in modo assoluto l’adempimento, da parte dello Stato, delle funzioni di garanzia e di controllo costituzionalmente riservate allo stesso in tali ambiti, in gravissima violazione del disposto dell’art.47 Cost. (strettamente interconnesso con gli artt.41 e 43 Cost), come già ricordato in premessa, oltre che, per quanto concerne il recente D.L. 133/2013, agli artt. 4, 5 e 6, dell’art.77, per totale carenza dei requisiti di “necessità e urgenza. Si insiste, inoltre, quanto al citato ultimo decreto legge, sulla sconsiderata abrogazione del comma 10 dell’art.19 della Legge 262\2005, operata a mezzo dell’art.6 del decreto, con la contestuale imposizione dello schema societario ad azionariato diffuso (di diritto anglosassone), che ha come corollario la definitiva preclusione di riappropriazione da parte dello Stato (prima dell’adozione del decreto al costo irrisorio di € 156.000,00), almeno di parte dei proventi di emissione monetaria (fonte primaria ed essenziale di finanziamento a titolo gratuito) pari alla quota parte di cui la Banca d’Italia è destinataria nell’ambito del SEBC, con danni incommensurabili sul piano delle entrate pubbliche.
Al tempo stesso, le privatizzazioni sconsiderate, attuate progressivamente a partire dalla legge n.35 del 29 gennaio 1992 e, a seguire, con la legge n.474 del 1994 , di conversione del D.L. 332/94, la legge n.481 del 1995, nonché la legge n.287 del 1990 sulla concorrenza, ai correlati provvedimenti di attuazione e sino ai più recenti interventi in corso di programmazione, hanno sostanzialmente “neutralizzato” le funzioni costituzionalmente riservate allo Stato dall’art.43 Cost., in funzione dell’art.41 Cost., oltre ad aver irrimediabilmente privato lo Stato delle entrate connesse a quelle attività (si ricorda che il gruppo IRI nel 1992 registrava un fatturato di quasi 76 mila miliardi di lire ed nel 1993 era al settimo posto nella classifica delle maggiori società al mondo per importanza di fatturato, registrando 67,5 miliardi di dollari di vendite), oltre all’inevitabile impatto in termini di produttività, occupazione e PIL.
Tutto questo è avvenuto mentre con Decreto Ministeriale n.561 del 13 ottobre 1995, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale n.302 del 29 dicembre 1995, il Ministero del Tesoro, in virtù dell’ art.24, comma 4, della Legge n.241/1990, in deroga al diritto di accesso agli atti, dalla stessa garantito, individuava, tra gli atti sottratti, “temporaneamente o senza limiti di tempo”, al diritto di accesso, le seguenti categorie:
Art. 2, comma 1, lett. c) (atti, studi, analisi, proposte e relazioni che riguardano la posizione italiana nell’ambito di accordi internazionali sulla politica monetaria e sulla politica creditizia e finanziaria) – 10 anni – ; lett. d) (atti preparatori del Consiglio della Comunità europea) – 10 anni – ; lett. e) (atti preparatori dei negoziati della Comunità europea, nonché degli accordi multilaterali di ristrutturazione del debito estero) – senza limiti di tempo – ; lett. f) (documenti, studi, proposte, relazioni, indagini e atti relativi alla partecipazione italiana alle istituzioni creditizie internazionali) – senza limiti di tempo – ;
Art.3, comma 1, lett. a) (atti relativi a studi, indagini, analisi, relazioni, proposte, programmi, elaborazioni e comunicazioni sui flussi finanziari di entrata e di spesa, sulle previsioni del fabbisogno dello Stato, sulla evoluzione, la consistenza, la gestione, il risanamento del debito pubblico e provvedimenti per il contenimento ed il risanamento della spesa e del deficit pubblico, sulla struttura e sull’andamento dei mercati finanziari e valutari nonché sulla politica fiscale e di spesa pubblica) – 10 anni -; lett. b) (elaborazioni, simulazioni e previsioni concernenti misure di contenimento della spesa per interessi e, in generale, del fabbisogno del settore statale e di quello pubblico allargato) – 10 anni -; lett. c) (atti, anche preparatori, relativi all’emissione o ad altre determinazioni in materia di titoli di Stato e di autorizzazione all’emissione di prestiti in eurolire) – 10 anni -; lett. d) (atti relativi agli interventi dell’Amministrazione in campo monetario e valutario, se connessi ai procedimenti di cui alla successiva lettera e)) – senza limiti di tempo -; lett. e) (atti di programmazione e di iniziativa dell’attività di vigilanza e di ispezione, nonché verbali, atti e relazioni dei servizi ispettivi ed atti sanzionatori, quando possa derivarne pregiudizio ai processi di formazione, di determinazione e di attuazione della politica monetaria e valutaria);
Art.5, comma 1, lett. g) (atti, studi, analisi, comunicazioni, relazioni e proposte di carattere economico finanziario e congiunturale attinenti allo Stato, agli Enti pubblici e privati ed alle banche e società su cui lo Stato esercita forme di partecipazione e/o controllo) – senza limiti di tempo -; lett. i) ( atti, studi, analisi, relazioni, proposte, denunce degli organi e dei rappresentanti ministeriali in seno alle pubbliche amministrazioni e agli enti pubblici e privati, alle banche ed alle società partecipate o controllate) – 20 anni – ; lett. n) (documenti, atti, studi, analisi, relazioni, proposte, istruzioni, comunicazioni, autorizzazioni, denunce sull’assetto proprietario, la costituzione, la fusione, lo scorporo, il commissariamento, lo scioglimento e la liquidazione, il funzionamento, la cessione e tutte le attività connesse di enti pubblici e privati, società, banche, sui quali l’Amministrazione esercita una funzione di partecipazione o di controllo, ovvero esercita un’influenza determinante, ovvero eroga contribuzioni in beni o in natura finanziaria ancorchè di carattere saltuario) – senza limiti di tempo -; lett. u) (studi, atti e documenti concernenti la gestione dei titoli azionari o di partecipazioni societarie di proprietà dello Stato, le operazioni di cessione e collocamento di detti titoli sul mercato, nonché la rappresentanza dello Stato nell’assemblea dei soci) – senza limiti di tempo -; lett. v) (documenti contenenti notizie sul debito pubblico al portatore, a norma degli articoli 57 del testo unico, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 14 febbraio 1963, n.1343, e 221, comma 2, del regolamento emanato con regio decreto 19 febbraio 1911, n.298) – senza limiti di tempo -.
Ora, posto che si ritiene evidente, anche alla luce di quanto sopra in espositiva, come il mancato accesso a siffatti atti (si veda in proposito l’art.12 della Legge n.801/1977) si presti, piuttosto, a “recar danno” all’ “integrità dello Stato democratico”, “alla difesa delle istituzioni poste dalla Costituzione a suo fondamento, al libero esercizio delle funzioni degli organi costituzionali” (e sul punto si richiamano le dichiarazioni rilasciate dal senatore leghista Massimo Garavaglia, intervenuto in un convegno a S.Ambrogio il 21 settembre 2012, in cui descrive il ricatto finanziario cui fu sottoposto lo Stato italiano alla vigilia dell’insediamento del governo “Monti”, su www.youtube.com/watch?v=vKJMmZP4p38,), all’indipendenza dello Stato rispetto agli altri Stati e alle relazioni con essi”. Si veda, inoltre, il contenuto della seguente intervista su: http://www.youtube.com/watch?v=wifCgI4gagM),
tutto quanto sopra premesso,
SI CHIEDE
A codesta Eccellentissima Corte che:
  1. In via preliminare: voglia rimettere gli atti alla Corte Costituzionale, perché si pronunci:
  • sulla costituzionalità delle Leggi Costituzionali n.1 del 20 aprile 2012 e n.3 del 18 ottobre 2001, art.3, (quest’ultima per la parte in cui non subordina il rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali al rispetto dei principi supremi dell’ordinamento costituzionale italiano) e degli ordini di esecuzione di cui agli artt.: art.2 della Legge n.454 del 3 novembre 1992 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Maastricht), art.2 della Legge n.209 del 16 giugno 1998 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Amsterdam), art.2 della Legge n.102 del 11 maggio 2002 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Nizza), art.2 della Legge n.130 del 2 agosto 2008 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Lisbona), art.2 della Legge n.114 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance dell’Unione economica e monetaria – c.d.fiscal compact), art.2 della Legge n.115 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione della Decisione del Consiglio europeo 2011/199/UE del 25.3.2011, che modifica l’art.136 del TFUE) relativamente ad un meccanismo di stabilità per gli Stati membri la cui moneta è l’euro), art.2 della Legge n.116 del 23 luglio 2012 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato che istituisce il Meccanismo europeo di stabilità – c.d. MES), nella parte in cui consentono l’ingresso nel nostro ordinamento delle norme di cui agli artt. dal n. 119 al n.136 (quest’ultimo ulteriormente modificato dalla Decisione del Consiglio europeo di cui appena sopra) del TFUE, delle norme di cui agli artt. dal n.282 al n.284 del TFUE, delle disposizioni di cui ai Protocolli n.4 e n.12, allegati ai Trattati, e dell’integrale contenuto del Trattato istitutivo del MES (artt. dal n.1 al n.48 ed allegati I e II al Trattato), oltre all’art.3 della Legge n.116/2012 relativa alla copertura finanziaria degli obblighi derivanti dall’ordine di esecuzione di cui all’art.2 stessa legge; nonché l’art.2 della Legge n.1203 del 14 ottobre 1957 (legge di ratifica ed esecuzione del Trattato di Roma), nella parte in cuiconsente, in virtù dell’ attuale art.288 TFUE (già art.189 Trattato di Roma e, successivamente, art.249 TCE), l’ingresso nel nostro ordinamento dei seguenti Regolamenti: Regolamento (CE) n.1467/97 del Consiglio del 7 luglio 1997,; Regolamento (CE) n.1466/97 del Consiglio del 7 luglio 1997; Regolamenti nn.1173/2011, 1174/2011, 1175/2011, 1176/2011, 1177/2011, tutti del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 16 novembre 2011; Regolamento (UE) n.472/2013del Parlamento europeo e del Consiglio, del 21 maggio 2013; Regolamento (UE) n.473/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, sempre del 21 maggio 2013 e Direttiva 2011\85\UE del Consiglio del 8 novembre 2011; Regolamento UE n.1024/2013 del Consiglio del 15 ottobre 2013, Decisione BCE/2010/23 del 25 novembre 2010 (abrogativa della Decisione BCE/2001/16) e Decisione BCE/2010/29 del 13 dicembre 2010; e sulla costituzionalità dei seguenti atti:Legge n.433 del 17 dicembre 1997, seguita dai D.Lgs. n.43 del 10 marzo 1998, n.213 del 24 giugno 1998, n.319 del 26 agosto 1998 e n.206 del 15 giugno 1999, con i quali è stata data attuazione all’introduzione dell’euro in Italia;
tutti gli atti sopra elencati per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 9, 11, 36, 41, 42, 43, 47, 53 e 139 Cost., nonché art.70 Cost, quest’ultimo quale ulteriore rilievo di incostituzionalità in relazione agli attivincolanti della BCE (regolamenti e decisioni) di cui all’art.132 del TFUE, e con ulteriore riferimento alla Decisione BCE/2010/23 (abrogativa della Decisione BCE/2001/16) e Decisione BCE/2010/29 del 13 dicembre 2010 di cui sopra, in quanto atti emanati da un’istituzione finanziaria i cui organi decisionali sono di nomina individuale, senza previsione di alcun meccanismo di partecipazione democratica dei cittadini e comunque degli Stati, tenuto conto di quanto in premessa ed in espositiva in diritto al presente atto.
  • Nonché sulla costituzionalità dellalegge n.35 del 29 gennaio 1992;legge n.82 del 7 febbraio 1992; D.Lgs. n.43/1998, legge n.262/2005, nonché degli artt.4, 5 e 6 del più recentedecreto legge n.133 del 30 novembre 2013 (convertito in Legge n.5 del 29 gennaio 2014); oltre che sulla costituzionalità dei seguenti atti normativi: legge n.474 del 1994 , di conversione del D.L. 332/94, la legge n.481 del 1995, nonché la legge n.287 del 1990 e correlati provvedimenti di attuazione;
tutti gli atti sopra elencati per violazione degli artt. 1, 2, 3, 4, 9, 36, 41, 42, 43, 47, 53 e 139 Cost., nonché art.77 Cost. quest’ultimo quale ulteriore rilievo di incostituzionalità con riferimento specifico al D.L. 133/2013, artt.4, 5, e 6 per totale assenza dei requisiti di “necessità e urgenza”, tenuto conto di quanto in premessa ed in espositiva in diritto nel presente atto.
  1. Nel merito: valutata, alla luce dell’ espositiva di cui sopra, la sussistenza di un consistente danno arrecato all’erario ed agli equilibri finanziari e di bilancio dello Stato, qualora ravvisi profili di responsabilità contabile, si attivi al fine dell’accertamento della stessa e della refusione dei danni patiti dall’erario da parte dei soggetti eventualmente responsabili, con accesso, in base ai poteri propri di codesta Procura, agli atti di cui all’art.2, comma 1, lettere c), d), e), f);art.3, comma 1, letterea), b), c), d),e);art.5, comma 1, lettere g),i),n),u),v), del Decreto Ministeriale n.561 del 13 ottobre 1995e fatto salvo, qualora ritenuto, il ricorso all’art.204 c.p.p., con richiesta di essere informati in caso di archiviazione del procedimento.
Con osservanza
Lì, ______________
Firma _________________

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